Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/424

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418 la divina commedia

     non è pileggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
69né da nocchier ch’a se medesmo parca.
     «Perché la faccia mia sí t’innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
72che sotto i raggi di Cristo s’infiora?
     Quivi è la rosa in che ’l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
75al cui odor si prese il buon cammino».
     Cosí Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
78a la battaglia de’ debili cigli.
     Come a raggio di sol, che puro mei
per fratta nube, giá prato di fiori
81vider, coverti d’ombra, li occhi miei,
     vid’io cosí piú turbe di splendori,
fulgorati di su da raggi ardenti,
84senza veder principio di fulgori.
     O benigna virtú che sí li ’mprenti,
su t’esaltasti, per largirmi loco
87a li occhi lí che non t’eran possenti.
     Il nome del bel fior ch’io sempre invoco
e mane e sera, tutto mi ristrinse
90l’animo ad avvisar lo maggior foco.
     E come ambo le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella
93che lá su vince, come qua giú vinse,
     per entro il cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
96e cinsela e girossi intorno ad ella.
     Qualunque melodia piú dolce sona
qua giú, e piú a sé l’anima tira,
99parrebbe nube che squarciata tona,
     comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
102del quale il ciel piú chiaro s’inzaffira.