Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/43

Da Wikisource.

inferno - canto viii 37

     non mi lasciar» diss’io «cosí disfatto;
e se ’l passar piú oltre ci è negato,
102ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
     E quel signor che lí m’avea menato,
mi disse: «Non temer, ché ’l nostro passo
105non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
     Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza bona,
108ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
     Cosí sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre; e io rimango in forse,
111che no e sí nel capo mi tenzona.
     Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette lá con essi guari,
114che ciascun dentro a prova si ricorse.
     Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio signor, che fuor rimase
117e rivolsesi a me con passi rari.
     Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
120«Chi m’ha negate le dolenti case!»
     E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
123qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
     Questa lor tracotanza non è nova;
ché giá l’usaro a men secreta porta,
126la qual senza serrarne ancor si trova.
     Sopr’essa vedestú la scritta morta:
e giá di qua da lei discende l’erta,
129passando per li cerchi senza scorta,
     tal che per lui ne fia la terra aperta».