Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/66

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60 la divina commedia

     Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
30come di neve in alpe senza vento.
     Quali Alessandro in quelle parti calde
d’India vide sopra lo suo stuolo
33fiamme cadere infino a terra salde;
     per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
36mei si stingeva mentre ch’era solo;
     tale scendeva l’eternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’esca
39sotto focile, a doppiar lo dolore.
     Senza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
42escotendo da sé l’arsura fresca.
     I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che’ demon duri
45ch’a l’entrar de la porta incontra uscinci,
     chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio, e giace dispettoso e torto,
48sí che la pioggia non par che ’l maturi?»
     E quel medesmo che si fu accorto
ch’i’ domandava il mio duca di lui,
51gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
     Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
54onde l’ultimo dí percosso fui;
     o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
57chiamando ‛ Buon Vulcano, aiuta, aiuta! ’
     sí com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza,
60non ne potrebbe aver vendetta allegra».
     Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sí forte udito:
63«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza