Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/67

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inferno - canto xiv 61

     la tua superbia, se’ tu piú punito:
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
66sarebbe al tuo furor dolor compito».
     Poi si rivolse a me con miglior labbia
dicendo: «Quei fu l’un de’ sette regi
69ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia
     Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi:
ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
72sono al suo petto assai debiti fregi.
     Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia,
75ma sempre al bosco li ritieni stretti».
     Tacendo divenimmo lá ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
78lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
     Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
81tal per la rena giú sen giva quello.
     Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’eran pietra, e’ margini da lato;
84per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.
     «Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi entrammo per la porta
87lo cui sogliare a nessuno è negato,
     cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’è ’l presente rio,
90che sovra sé tutte fiammelle ammorta».
     Queste parole fur del duca mio:
per ch’io ’l pregai che mi largisse il pasto
93di cui largito m’aveva il disio.
     «In mezzo mar siede un paese guasto,»
diss’elli allora «che s’appella Creta,
96sotto ’l cui rege fu giá il mondo casto.
     Una montagna v’è che giá fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
99or è diserta come cosa vieta.