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12- Simone Aliprandi - Apriti standard! www.standardaperti.it - www.aliprandi.org

pura ricerca riservata quindi ad appositi centri ed operatori specializzati, difficilmente viene percepita l’esigenza di tutelare e controllare il frutto della proprio attività di sviluppo con strumenti di natura giuridica. Può sussistere al massimo un’esigenza alla loro segretezza, o più generalmente ad un riconoscimento della paternità intellettuale di una creazione, di una invenzione, di una soluzione tecnico-scientifica.

Pensiamo al caso emblematico del software, che appunto è attualmente una di quelle creazioni intellettuali che godono di una tutela giuridica multipla e sovrapposta. Esso nasce come opera tendenzialmente libera da tutela industriale; tuttavia quando la sua produzione è arrivata ad un sufficiente livello di maturità, il software ha iniziato ad acquisire una sua autonomia rispetto alle componenti hardware e ad essere considerato un prodotto da distribuire e commercializzare indipendentemente. Ecco, è in questa fase cruciale che le aziende impegnate in questo nuovo mercato sentono l’esigenza di tutelare i loro investimenti con strumenti di tutela giuridica; e il mondo del diritto (quello degli studiosi prima e quello dei legislatori poi) si trova a dover fornire delle risposte a questa esigenza che siano praticabili e sostenibili.

Si aprì dunque un dibattito in seno alla comunità scientifica di giuristi ed economisti su quale fosse il modello di tutela più adatto e si pensò che non fosse necessario creare un modello ad hoc ma che invece fosse sufficiente guardare ai modelli di tutela classici del diritto industriale: il copyright e il brevetto. Sulla base di riflessioni (per altro illuminate) che non è il caso di approfondire in questa sede1, la scelta ricadde sul copyright. Si pensò infatti di considerare il software (specificamente nella sua forma di codice sorgente) alla stregua di un’opera letteraria, trattandosi in effetti di un testo dotato di una sua sintassi e di una sua valenza espressiva (anche se comprensibile solo a chi conosce i linguaggi di programmazione). Il legislatore statunitense emise dunque una legge (il Software Copyright Act del 1980) che poneva i principi per l’applicazione del copyright ai programmi per elaboratore; e nell’arco di pochi anni tutti i principali paesi tecnologicamente avanzati seguirono l’esempio (Australia nel 1984, Gran Bretagna, Francia e Germania nel 1985, Comunità Europea con direttiva del 1991, Italia nel 1992 in attuazione della direttiva europea).

  1. «A livello dottrinale più che a livello pratico, infatti, a creare dubbi è proprio una caratteristica peculiare del software: la sua funzionalità, ovvero la sua vocazione di opera destinata alla soluzione di problemi tecnici; caratteristica questa che lo avvicina ineluttabilmente alla categoria delle invenzioni dotate d’industrialità. D’altro canto, però, il software appare carente del requisito della materialità considerato da alcuni giuristi come condicio sine qua non per la brevettabilità. Storicamente, inoltre, la tutela brevettuale venne vista con diffidenza dalle aziende produttrici di hardware: esse temevano che tale prospettiva avrebbe attribuito un eccessivo potere alle aziende di software e reso il commercio dell’hardware schiavo delle loro scelte di mercato.» Aliprandi S., Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d’autore, PrimaOra, 2007 (p. 82), disponibile on-line al sito www.aliprandi.org/books.