Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/121

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emanuele filiberto a pinerolo 107

correre in aiuto, lanciando il cavallo a pancia a terra, ai conti di Egmont e di Pandeveaux, che stavan per essere soverchiati; avrebbe potuto disegnare pezzo per pezzo la sua armatura, e sapeva imitare benissimo la sua pronunzia spagnola, che risentiva più della francese che dell’italiana. Ma dunque, com’era proprio, a ventinove anni, il duca Emanuele Filiberto? Come si moveva? Come guardava? Che voce aveva? E il Benavides doveva ridire per la decima volta le medesime cose. Non alto di statura, saldo e bello delle membra, una testa scultoria, i capelli biondi un po’ increspati, due piccoli occhi celesti acutissimi e scintillanti come due punte di spade, la barba folta e corta, il petto largo e sporgente, le braccia atletiche, le gambe leggerissimamente arcate, la voce, il passo, il gesto d’un uomo nato per comandare e per combattere, e per esser più temuto che amato; e pure una grazia meravigliosa d’atteggiamenti e di mosse. Nessuno aveva mai visto sui campi di battaglia un cavaliere più principescamente soldato di lui. Desto e armato avanti all’alba, infaticabile, abborrente dall’immobilità come da una tortura, parchissimo di parole, irremovibile nei suoi propositi, frenava gl’impeti di collera mordendosi a sangue le labbra, dava con un’occhiata o con una parola delle lodi che inebbriavano l’anima, degli ordini che mettevano la furia nelle vene e dei rimproveri che facevano tremare le ossa. Ed era terribile, ma giusto, e rivelava spesso in atti secreti di clemenza la bontà che non si lasciava mai uscire dalle labbra. Chi gli leggeva nell’animo lo amava, timidamente