Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/137

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emanuele filiberto a pinerolo 123

devano ai giorni, e nulla accadeva. Ad ogni arrivo di corriere da Torino o dalla Francia, si aspettava per ventiquattr’ore il grande annunzio; ad ogni radunata straordinaria del Consiglio dei Cento, si sperava la lettura d’un messaggio solenne del Re o del Duca; i consiglieri, dice il cronista “per tutti li luoghi dove passauano ueniuano con molta anzietà dimandati se fossero buone nouelle gionte di Torino per la restituttione della città.„ Ma nulla era giunto. E quel grullo cascamorto d’un cugino ne faceva un gran chiasso in odio a Emanuele Filiberto. Egli perdurava nella sua beata illusione di non avere altri rivali che il Duca. Veramente, una vaghissima idea gli era lampeggiata dentro alle tenebre del cranio che il nobile catalano c’entrasse anche per qualche cosa; ma l’idea d’avere un rivale di quella fatta, presente, parlante e sfolgorante, col quale ogni lotta sarebbe stata impossibile, gli metteva un tale sgomento nel cuore, ch’egli l’aveva scacciata subito, bruscamente, come un’immaginazione insensata; e continuava a tirare di punta e di taglio contro il vincitore di San Quintino. — Con le armi, — diceva all’Evelina — s’ha da riconquistar Pinerolo, con le armi, come fanno i grandi capitani, e non con i negoziati e con le chiacchiere. Ha fatto un bel pezzo di lavoro, in dodici anni, il gran Duca! Ci troviamo nelle peste peggio di prima. — Evelina, — soggiungeva poi a bassa voce, con enfasi; — io sarei più grande di lui se mi amaste! — Ma rimaneva tutto stupito al vedere che la cugina non aveva sentito nè la puntura,