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di quei discorsi. — Ancora di Emanuele Filiberto? — le domandò una sera quasi in tuono di noia. Ed ella disse tra sè tristamente, quando fu uscito: — Egli s’annoia. Il suo pensiero e il suo cuore sono già lontani. È già separato da noi. Tutto è finito. Addio.



Venne finalmente quel sospiratissimo primo dell’anno. Partito da Torino, col suo grande corteo, il 31 dicembre, il Duca doveva pernottare a Vigone ed entrare in Pinerolo il primo di gennaio, avanti mezzogiorno. Spalancando le finestre la mattina presto, Evelina gettò un’esclamazione di dolore e di dispetto: la piazza San Donato, i tetti, i rilievi delle case, tutto era bianco, e nevicava ancora, radamente. Ma l’aria era mite. La città rumoreggiava. Il Consiglio, le milizie, tutti i personaggi del ricevimento e una grande folla erano già usciti di Porta Torino. La piazza San Donato si riempiva di gente a poco a poco; le finestre s’andavano ornando di arazzi e di ghirlande di verzura e di fiori. Il tratto più trionfale dell’entrata del principe sarebbe stato certamente là, davanti alla vecchia chiesa del Santo protettore di Pinerolo, nel cuore della città antica. In pochi minuti la ragazza levò la neve dalla ringhiera, distese con le mani un po’ tremanti il suo bel parato azzurro, ordinò sopra un tavolino le sue quattro grosse corone di lauro tino, poi si andò a infilare il suo bel mantel-