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gialli e scarlatti, e baracche imbandierate, una città guerresca improvvisata, dove stavan la corte, la nobiltà, un visibilio d’alti uffiziali di Piemonte e di Spagna; e alla estremità opposta, Pietro di Padilla, generale dell’esercito di Filippo II. Lo spettacolo doveva esser vivo e splendido, se si pensa chi era il direttore di scena. Ora, nel luogo in cui s’alzavano i padiglioni ducali, su quello stesso tratto di terreno dove passeggiava a passi concitati, nelle notti insonni, quel grandioso capitan di ventura, stendendo col pensiero i tentacoli smisurati della sua ambizione dalla Macedonia alla Provenza, dal trono del Papa al trono di Boemia, dalla corona di Spagna alla corona di Francia, e meditando le vaste cabale e le giravolte astute e i colpi d’audacia che meravigliavan l’Europa; in quel breve spazio quadrato dove egli intratteneva con la conversazione rapida e scintillante i pomposi generali dei due eserciti, e divisava acquisti di quadri del Vasari e del Veronese, e poetava forse, e sognava la gloria immortale, impotente quasi a contenere nel piccolo corpo difettoso la piena tumultuante delle passioni; in quello stesso punto il vignaiuolo avido e astuto quanto il principe savoiardo, ma più cauto, stilla pacatamente la maniera di fare al padrone ciò che il principe avrebbe voluto fare all’Europa, e conta sulle dita i miriagrammi d’uva e le brente di vino che potrà buffare onestamente, ignaro affatto delle glorie storiche della sua vigna, e fin del nome di Carlo Emanuele. Così, con l’ignoranza, il contadino si vendica dei gloriosi devastatori della cam-