Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/220

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206 le termopili valdesi

alcuna apertura. Si continuò a salire, poi si discese per un sentiero da capre, appoggiandoci ai macigni, aggrappandoci agli arbusti, sedendoci qualche volta improvvisamente, fin che s’arrivò dentro a una specie d’atrio della caverna, mascherato da alcuni tigli. L’entrata è larga, ma di pochi palmi d’altezza, tutta punte di sopra e di sotto, simile a una bocca di roccia che digrigni i denti; in maniera che non ci si può entrare che accoccolandosi col mento sulle ginocchia, o allungandosi in terra, sul fianco, e strisciando, come un ferito che cerchi aiuto. L’entrata della grotta azzurra di Capri è un portone di palazzo in confronto di quella maledetta buca da lettere: a ficcarcisi, par proprio di impostar sè stessi per l’altro mondo. Il pastore accese un moccoletto, e s’infilò per il primo; noi ci coricammo sui pietroni, l’un dopo l’altro, in atteggiamento di gladiatori morenti, e badando bene alla cappadoccia, rotolammo dentro, senza gravi ammaccature. Appena entrati ci trovammo al buio; ci volle qualche momento per raccapezzarsi. La caverna è stretta e lunga, della forma d’una grande spaccatura, capace di circa a duecento persone, rischiarata fiocamente dall’alto, per tre aperture sottili, che paion tre feritoie orizzontali, e ingombra in fondo di massi enormi di roccia. Quel po’ di luce che vi scende le dà l’aspetto sinistro d’una carcere sotterranea di castello, dove i prigionieri ricevano il cibo dalle fessure della volta. Il pastore ci diceva che alle volte vi si piglian dei pipistrelli nei vani delle pareti, così, allungando la mano. È una luce giallastra,