Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/251

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le termopili valdesi 237

miserevoli fughe, quando, voltandosi a guardare in alto, vedevano sulle vette quelle schiere di spettri, quei branchi di straccioni, d’affamati e di reietti, che nessuna forza umana poteva domare! Invano i frati, invano i missionarii, ad ogni assalto d’esercito, aspettavano all’imboccatura della valle che i vincitori ritornassero, trascinando con sè gli ultimi avanzi dei miscredenti, per farne dei papisti o dei cadaveri. Gli ultimi avanzi non tornavano mai. Non tornavano che i soldati dell’Inquisizione, sbandati, stravolti, sanguinosi, portando sulle barelle i loro compagni con la fronte spaccata, e celando per vergogna le croci delle loro bandiere. Chi avrebbe detto allora a quei soldati e a quei monaci che sotto a quella medesima croce bianca i cannoni di Casa Savoia avrebbero sfondato un giorno le porte della città del Papa!



Ci rimettemmo in cammino; entrammo in Pra del Torno. Par veramente d’entrare tra le mura d’una immensa fortezza. Ai primi passi mi ricordai di quel terribile défilé de la Hache, dove il Flaubert fa morir di fame i ventimila barbari, nel suo romanzo Salammbò. Le roccie altissime presentan delle forme strane di torri, di facciate di cattedrali, di grandi archi di gallerie; alcune, di palazzi aerei, ritti lassù nella regione delle nuvole, intorno ai quali volan degli avvoltoi e delle aquile. Qua e là, a grandi altezze, si vedono ancora dei piccoli tappeti verdi, dove