Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/269

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la marchesa di spigno 255

grandi caratteri delle sentenze di santi. A sinistra della grata, c’è una finestra chiusa da una ruota, come quelle degli esposti, per far girare gli oggetti di dentro, senza che si veda in viso chi li riceve. Dall’altra parte c’è appeso al muro un cartellino, che proibisce di dar dei confetti alle educande. La giornata essendo coperta, ci si vedeva appena. E c’era un silenzio, una tristezza fredda, un’espressione così severa, in tutte le cose, di penitenza, di rinunzia al mondo e di malinconia, che quelle due signore coi cappelli infiorati e coi vestiti eleganti ci facevano un contrasto violento e stranissimo, come di due mascherine pompose nella stanza mortuaria d’un ospedale. Aspettammo per molto tempo, senza trovar nulla da dire, come già presi dalla tristezza del luogo. Finalmente, s’udì un fruscio: comparvero due monache. Eran la superiora e un’anziana, vestite di nero, con un soggòlo bianco, e con un velo oscuro calato fin quasi sugli occhi. S’avvicinarono alla grata. Il velo e la mezza luce non lasciavan distinguere nè l’età, nè la fisonomia. La superiora doveva esser giovane. Quando aperse bocca, fui maravigliato della sua voce dolcissima e della sua pura pronunzia toscana. Era di Pistoia. Ci sedemmo, e cominciammo a parlare, come in confessione, a bassa voce, a traverso ai fori della grata.



La superiora cominciò con dire che aveva ben poche notizie da darmi. Essendo state costrette