Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/297

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la marchesa di spigno 283

vevo dunque essergli fatale, non c’era pietà, il mio nome era una maledizione, mi esecravano ancora laggiù, e non potendo più infierire contro un’ottuagenaria sepolta viva, mi ferivano, m’uccidevano nel mio figliuolo, in quel figliuolo! Questo mi toccava ancora di vedere, prima di chiudere gli occhi! Egli tacque per un pezzo. Poi negò. Non era vero. Non ci dovevo credere. Mi supplicava di non crederci e di vivere serena. Ma io lo conoscevo. Egli era buono come un angelo. Sarebbe morto di angoscia, piuttosto che darmi quella pugnalata al cuore di dire: — Sì! è vero! Io sono odiato e perseguitato, io sono infelice per cagion tua! — Oh io capivo bene ogni cosa dal fondo del mio convento. Conoscevo la Corte. Era troppo duro il dover una grande vittoria e la salvezza del proprio Stato al figliuolo della reclusa di Ceva, di quella marchesa di Spigno che s’era fatta strascinar seminuda dai soldati per le stanze del Castello di Moncalieri, come una ladra di strada. La gloria di quel colonnello delle guardie era un rimprovero amaro, una vendetta del re morto e della vedova moribonda, un castigo, un scherno del destino, che risvegliava dei rimorsi e delle vergogne. Oh! io capii, capii tutto. Non lo perseguitavano, no; lo torturavano lentamente, facendo il silenzio intorno alla sua gloria, mostrando di non vederla e d’ignorarla, dandola ad altri, levandogli l’aria da respirare. Dopo un po’ di tempo non si parlava più di lui. Egli vedeva spegnersi a poco a poco la luce del suo nome e rifarsi l’oscurità sul suo capo. Povero Paolo! Era un’anima