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la lunga fila di palchi imbandierati che il Municipio aveva fatto inalzare nella gran piazza, a destra e a sinistra del padiglione del Re. Il Municipio aveva fatto le cose per bene. Il signor Rogelli si stropicciò le mani, levò dal braccio della signora il canestrino di fiori, per ridarglielo al momento opportuno, e prese posto in piedi, appoggiato a una delle antenne della tenda, nell’atteggiamento d’un generale vittorioso.


La sfilata doveva cominciare alle dieci. I palchi eran già tutti neri di giubbe, variopinti di signore, scintillanti di divise, brulicanti come vasti alveari; e un mare di gente, in cui mettevan foce molti torrenti, fiottava, rumoreggiando, su tutto lo spazio che corre dalla porta di Torino alla porta di Francia. Nelle grandi case della piazza pareva che si fossero ammontati tutti gli abitanti di Pinerolo, e che volessero schizzar fuori dalle finestre, come gocce di liquido compresso dalle commettiture del recipiente; i terrazzi rassomigliavano a enormi giardiniere, riboccanti d’ogni specie di fiori di montagna; e nei palchi e per la piazza innumerevoli fogli volanti, sui quali erano stampati i nomi dei venti battaglioni, e dei paesi dove si levano, s’agitavan per aria e giravano per tutte le mani, macchiettando la folla di mille colori, come grandi farfalle prigioniere. Dal giorno dell’entrata d’Emanuele Filiberto, Pinerolo non aveva più visto, certo, ribollire tanto sangue, fremere tanta festa tra le sue mura. A grande stento era tenuto sgombro un angusto