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103 ANNALI D'ITALIA, ANNO XXXV. 104


Anno di Cristo XXXV. Indizione VIII.
Pietro Apostolo papa 7
Tiberio imperadore 22.


Consoli


Cajo Cestio Gallo e Marco Servilio Moniano


Si celebrarono in quest’anno1 le nozze di Cajo Caligola, nipote per adozione di Tiberio, con Claudilla, figliuola di Marco Silano, in Anzo. V’intervenne lo stesso Tiberio, non avendo voluto neppure per occasion sì propria lasciarsi vedere in Roma, perchè non gli piacea di trovarsi presente alle sanguinarie esecuzioni, che ivi tuttavia si continuavano d’ordine di lui, non mai sazio di perseguitare chiunque fu stretto d’amicizia con Sejano. Fin qui aveva egli sofferto Fulcinio Trione, che fu console nell’anno della caduta del medesimo Sejano, anzi la buona gente il riputava molto favorito da lui. Ora solamente era per iscoppiare il fulmine sopra di lui; ma ciò presentito da Trione, si uccise colle proprie mani dopo aver fatto un testamento, in cui vomitò quante ingiurie potè contra di Tiberio e di Macrone, e dei liberti della corte. Non si attentavano gli eredi suoi di pubblicare un sì obbrobrioso scritto. Avutane contezza Tiberio, volle che si portasse e leggesse nel senato per guadagnarsi il plauso di principe sofferente dell’altrui libertà, giacchè punto non si curava della propria infamia, nè che si scoprissero le iniquità da lui commesse per mezzo di Sejano, ben sapendo che non erano cose ignote al pubblico. Uso certamente suo fu il non mai volere che si occultassero i libelli infamatorii fatti contra di lui, parendo quasi che riputasse sue lodi le sue vergogne. Altri senatori ed altri nobili, annoverati da Tacito2 e da Dione, o per mano propria o per quella del carnefice terminarono in [p. 104]quest’anno la lor vita; ed uno fra gli altri merita d’essere rammentato, cioè Poppeo Sabino, poco fa da noi veduto, che dopo il consolato, per ventiquattro anni avea governato la Macedonia, l’Acaia e le due Mesie, e col darsi la morte schivò il giudizio. Soggiornava in questi tempi Tiberio in vicinanza di Roma, per poter più speditamente aver il piacere d’intendere l’esecuzione de’ suoi tirannici comandamenti3. Fu allora, che vennero a Roma alcuni nobili Parti, segretamente, cioè senza saputa del re loro Artabano, per chiedere a Tiberio Fraate, figliuolo del fu Fraate re. Era montato Artabano in gran superbia, dacchè la vecchiaia di Tiberio, e il suo abborrimento alla guerra, aveano scemata in molti la stima e paura dell’armi romane. Essendo mancato di vita Zenone o sia Artassia, già creato dai Romani re dell’Armenia, Artabano avea occupato quel regno, e messovi Arsace, uno dei suoi figliuoli, per re, con assalir dipoi la Cappadocia, e minacciar anche di peggio i Romani. Inimicossi oltre a ciò i suoi colla soverchia alterigia, e lor diede ansa che ricorressero a Tiberio. Fu dunque mandato Fraate in Soria per isperanza che i Parti si moverebbero in favore di lui; ma perchè v’andò con poca fretta, ebbe tempo Artabano di premunirsi, e Fraate ammalatosi morì. Non lasciò Tiberio per questo di accudire agli affari dell’Armenia, e costituito Lucio Vitellio, cioè il padre di Vitellio, che fu col tempo imperadore, per generale dell’armata romana in Levante, mosse anche i re d’Iberia e i Sarmati contra di Artabano. Lasciatisi corrompere i ministri di Arsace, già divenuto re dell’Armenia, tolsero a lui la vita; ed entrate in quel paese le truppe dell’Iberia sotto il comando del re Farasmane, presero Artasata capitale del regno. Allora Artabano spedì Orode altro suo figliuolo contra di Farasmane con parte delle sue forze4. I Parti,

  1. Dio., lib. 58.
  2. Tacitus, lib. 6, c. 38.
  3. Tacitus, I. 6, c. 31. Dio., lib. 58.
  4. Joseph., Antiq. Judaicarum, lib. 18, c. 6.