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col suo grasso bambino, che usciva dalle fascie come una castagna matura dal riccio. Siccome il bimbo, non abituato a sentire che i suoi bisogni, non cessava dallo strillare, la mamma, per farlo tacere, sbottonò in fretta il giubboncello di lana e gli porse la poppa, sedendo vicino alla compagna che pareva irrigidita dal freddo e dal patimento.

— È vero quel che mi ha detto ieri sera la tua cameriera?

Arabella raccontò in poche parole fredde e senza lagrime la scena della sera.

— E ora che intendi di fare? separarti da tuo marito?

— Sì.

— Proprio davvero? pensaci. È sempre una disgrazia. Hai già scritto a tua madre?

— Non ancora. Vorrei sentire prima il tuo consiglio. Per me, oggi, non c’è che un consiglio buono.

— Povera Arabella! chi te l’avrebbe detto a Cremenno? Una separazione, sta bene; ma poi, dimmi, vuoi tornare nella tua famiglia? lo puoi?

— No, in famiglia no. Non voglio essere più di peso a nessuno.

— Hai tu abbastanza da vivere?

— Nulla, sai bene.

— È vero che tuo marito, in ogni modo, ha l’obbligo di concorrere...

— Non voglio nulla da quella gente. Piuttosto la fame.

— Caro il mio angelo, anche la fame è una brutta cosa.

— Non è la peggiore...

— Tu sei giustamente irritata e parli come sente