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La «universitas bobacteriorum Urbis» 167

diti agricoli, bensì in pedagi, in tasse di focatico e nei proventi delle saline. E che questi fossero i cespiti principali, anche durante il secolo xiv, si vede dalle parole che indirizzava Cola di Rienzo al popolo sull’Aventino, per eccitarlo alla sommossa1; egli scriveva poi a Clemente VII di aver fatto ascendere il reddito delle saline a trentamila fiorini annui2; e per redimere Vetralla, nel 1379, il popolo romano vendette quattromila rubbia di sale3. Che le campagne poco rendessero lo dimostra poi evidentemente il canone imposto nel 1300 da Roma a Toscanella di duemila rubbia di grano all’anno, colla facoltà di esigere mille lire,, nel caso che l’Agro romano somministrasse frumento sufficiente alla città4. Dal che si vede come non si poteva esser sicuri sul raccolto di ciascun anno e còme fosse necessaria una forte importazione. Quel poco che si poteva avere dalle campagne era tutto in mano della nostra Arte. Basta dare un’occhiata ai suoi statuti per persuadersene: i bobacterii ci appariscono difatti come i proprietari delle biade, da cui i cittadini romani prendevano a mutuo il grano o l’orzo &c. per la semina. Cosi: «quicumque recepit ab aliquo bobacterio aliquam quantitatem frumenti. . .»5; «item quod nullus bobacterius . . . qui aliquam quantitatem grani. . . alieni dederit» &c.6; «item quod illi, qui... ab aliquo bobacterio quantitatem grani receperit»7, dimostrano come l’Arte dei bovattieri fosse la sola, che potesse disporre di questi generi. Che se altri vi fosse stato, era soggetto alle leggi dell’Arte

  1. Vita di anonimo, lib. I, cap. iv.
  2. Papencordt, Cola di Rienxp, cap. I, p 35, nota.
  3. Coppi, Discorso sopra le finanze di Roma &c.
  4. Inscriz. in Campidoglio nel palazzo dei Conservatorì. V. anche Vitale, Stor. diplom. cit. p. 206.
  5. Stat. bobact. cap. 46.
  6. Ibid. cap. 47.
  7. Ibid. cap. 48.