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i porti della maremma senese 95

sta, spiacevole novella da una lettera dei Senesi, che insieme chiedevano nuovo soccorso di gente, non più per difendere, ma per riacquistare Talamone. «Abbiamo saputo, così scrivevano loro i Senesi, che l’armata di re Ladislao ha occupato Talamone, e che soltanto il cassero è rimasto in podestà nostra. A riparare all’ingiuria inviamo colà i nostri fanti con alcuni cavalieri del serenissimo re Luigi. A voi peraltro ci raccomandiamo tino dal cuore perchè vi piaccia di soccorrerci con quel maggior numero di uomini a pie ed a cavallo che vi sarà possibile. Imperciocchè questa impresa tanto importa alla comune patria, che, a nostro giudizio, non per noi tanto, quanto per voi si dee con ogni sforzo ovviare a questo pericolo»1.

Con la medesima sollecitudine, con lo stesso rammarico la repubblica ne diede avviso ad altri suoi amici, ai condottieri delle sue genti, e a Guasparre Cossa, fratello del papa, che era a’ servigi del re di Francia, e finalmente allo stesso pontefice, molto privato dei Fiorentini. Al pontefice ricordava la fedeltà serbata sempre dai Senesi alla Chiesa, ed i pericoli a cui piìi volte andarono incontro per questa loro devozione, che nondimeno intendevano di conservare perenne e inalterata. Volesse egli adunque inviare quante più genti poteva in soccorso della repubblica, «essendochè, ottenendosi vittoria sopra il comune inimico, ne verrebbe potenza alla Chiesa, onore al pontefice, consolazione grande ai Senesi»2. Ma il papa, quantunque la crescente fortuna di Ladislao lo inquietasse, era occupato in tutt’altro che nelle novità di questa parte d’Italia: le cose del Patrimonio e dello

  1. Copialettere del Concistoro del secondo semestre del 1410, a c. 16. «Importat enim tantum toti patrie ista res, quod, nostro iudicio, non minus pro vobis, quam pro nobis sit ipsi periculo totis conatibus obviare».
  2. «Speramus victoriam nobis de dicto hoste contingere: in qua re sancte matris Ecclesie statum, Bealitudinis vestre honorem, et toti nstro populo gaudium cernimus procul dubio exoriri» (ivi, c. 20 t.)