Pagina:Archivio storico italiano, serie 5, volume 7 (1891).djvu/439

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rassegna bibliografica 419

bandiere imperiali, solo facendo nel 1638 una breve gita in patria. Sul cadere del 1610 il Portogallo si solleva, e mette sul trono, quasi suo mal grado, Giovanni. Nella congiura non aveva avuto parte alcuna Duarte, il quale anzi ai disegni, secondo lui utopistici, che gli dovettero essere esposti da taluno dei capi nella sua visita di due anni innanzi, aveva creduto bene di sottrarsi con una partenza repentina e segreta; ma l’aver in mano un personaggio di tanta importanza, e il togliere ai portoghesi l’aiuto efficace del suo valore e della sua esperienza guerresca, parve agli spagnoli cosa troppo utile, perchè non avessero ad adoperarsi per ottenere dall’imperatore Ferdinando III la cattura di lui. Ferdinando si lasciò persuadere, bruttandosi di un atto della più nera ingratitudine; e nel 1642 mise il colmo all’obbrobrio, consegnando il prigioniero nelle mani dei cernici suoi, che lo trassero in Italia e lo rinchiusero nel castello di Milano. Qui D. Duarte rimase a languire sette anni, imputato di alto tradimento, senza che il processo, del quale gli atti cominciarono solo nel 1646, giungesse a conclusione. In cento modi si tentò di liberarlo: si tramarono fughe, si ricorse a tutti i potentati, dal papa al Gran Turco; alla fine, quando s’aveva speranza che l’oro che s’era pattuito di versare nelle mani francesi riuscisse a conseguire l’effetto, D. Duarte moriva, ai 3 di settembre del 1649; né di lui poterono riposare in patria neppure le ossa, di cui si sono ora perdute le tracce.

In Italia, la memoria della prigionia milanese fu ravvivata vent’anni fa da uno scritto del marchese Francesco Cusani (D. Duarte di Braganza prigioniero nel castello di Milano), condotto su documenti posseduti dall’Archivio di Stato di quella città, che ancora non erano stati messi a profitto; e questa pubblicazione ebbe eco assai viva tra i concittadini dell’infelicissimo principe. Ora il sig. José Ramos-Coelho consacra a lui due volumi, l’uno di settecento, l’altro di ben novecento pagine. Innamoratosi del soggetto, così per ragione di simpatia umana come di un caldo amor patrio, l’autore non ha risparmiato fatiche per conoscerlo addentro. I documenti milanesi lo trassero in Italia, e furono da lui studiati diligentissimamente e in gran parte trascritti. Il luogo stesso della prigionia fu oggetto di accurate indagini, efficacemente aiutate da quel profondo conoscitore del castello di Milano e delle sue vicende, che è l’architetto Luca Beltrami. Insomma, l’opera che qui s’annunzia è quanto mai coscienziosa e ricca di notizie.

Non dirò per questo che tutto vi sia da lodare. Lasciando certe censure che il gusto portoghese moverà forse ancor esso domani, ma che troverebbe illegittime quest’oggi, il lavoro pecca di un’estensione eccessiva. La minuzia in sé stessa non è a dire un difetto; ma è difetto la minuzia che degenera, come qui avviene,