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CVII

AL SIGNOR GIAMBATTISTA CASTALDO

Intorno al medesimo argomento. A mettere insieme, fratei mio, quanti fastidi ebbi mai, non a &KÌugnarieno a la passione che ho patito fino che la veritá non ha fatto capace don Lope che non vengano da me i fogli mandatigli dal cardinale e scritti contra l’imperadore e Antonio da Leva, i cui benefici m’hanno talmente usurpato l’aftezzion de l’animo, che par ch’io sia ingrato a voialtri, benefattor miei. Con due fregi m’ha voluto guastar la faccia de l’onore chi si ha creduto ciò: l’uno col tenermi malvagio inverso i doni che Sua Maestá e Sua Signoria m’han fatti; l’altro, col credersi ch’io sia non quel ch’io sono, ma un qualche balordo, perché di tale è composizione la lettera ch’io dico. Veggasi la copia scritta al reverendissimo, la qual vi mando con questa, e poi si paragoni l’intelletto di colui, che per invidia ha tentato contrafarmi, con lo spirto di cotal mia scusa. Non mi aiuti Iddio, se un puttanino di quindeci anni, che m’aveva chiesta una lettera amorosa, la qual feci comporre da un giovane raro ne la dottrina e ne la poesia, non la conobbe per cosa non mia. È pur vero che hanno piú vedere le cortigiane che i gran signori. Tosto si saperá chi è autore di cosi fatte ghiottanarie, perché anche i tradimenti e le congiure non posson star sotterra. E, ritrovato il maligno che, per aver falsificato la vertú, merita altra pena che chi falsifica le stampe de le zecche, voglio rimanere ne la mia còlara. E dove si tocca il volto a la mia fama non son per solTerirlo, perché chi si lascia tór l’onore si lascia tór la vita, e chi non si risente per ciò, è una fèra con la effigie d’uomo. Né a Vostra Signoria dico altro.

Di Venezia, il 25 di marzo 1537.