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CCXLVII

A MESSER GIOVANBATTISTA DRAGONZINO

Le muse dánno l’immortalitá, ma nè cibo né vesti. Il sonetto, uomo da bene, che con il candor de la mente e con la caritá de l’amicizia vi séte tratto de l’ingegno per lodarmi, ho io letto con piacere e ripostolo con diligenzia, raccogliendo con il core la volontade buona del volermi onorare e la bontá dei versi coi quali mi avete onorato. Mi dispiace bene di non esser gran maestro di forze, e non di grado, ché mi terrei impacciato per rendervene grazie con altro che con parole speranzevoli. Dei danari hanno bisogno le muse, e non di gran mercé magri e di proferte grasse. Certo, se le poverine avesser crocifisso Cristo, non sarebbero cotanto perseguitate da la povertá. Il mio messer Ambrogio da Milano, come vede uno con la cappa scotonata, stendendo il dito, dice — Colui debbe esser poeta. —Or noi siam qui, Dio grazia, né per la crudeltá de la sorte ci doviamo disperare, perché è una bella cosa il mandare a vendere il nome per tutte le fiere, con l’udirsi cantare in banca, facendo rinegar la fede a la Morte, la qual confessa che i poeti non son carne dai suoi denti: son ben pasto da quegli del freddo e del caldo. Per Dio, che la necessitá, che gli asassina, è de la natura dei principi, percioché ella si compiace nel soffrigergli la vita ne la padella del disagio, dandogli per ispezie c per limoni le cacabaldole de la gloria, alora che il «Qui giace il tale» fa correr la turba intorno a la sua sepultura. La conclusione del fatto nostro è lo sguazzare ne l’altro mondo, stentando in questo a guantum currit. Si che chi si diletta di andare scalzo e ignudo, trasformandosi d’uomo in cameleonte, diventi cantor di rime. Ma, per uscir di ciance, eccomi pronto in tutti i vostri comandi, come sempre fui e sempre sarò. I>i Venezia, il 24 di novembre 1537.