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CCLXXII

A MESSER CARLO LARCARO

Perché non scrive mai, pur sapendo di essere tanto amato? Se i pensieri, fratello, padri de le cure, si fusser fermati ne lo stato che pur si elesse la prudenzia de le vertú vostre, messer Fortunio e io vi avereramo qui con esso noi ; ma la sorte, disturbatrice dei propositi umani, rompendovi il disegno che faceste circa il refutar la mercanzia a chi ci è piú dedito e a coloro che piú I’aprezzano, vi ha cotanto allontanato da noi due, che mi par sognargli quando ricevo saluti da voi. Io non mi ramento mai de la soavitá de le vostre maniere, che non mi venga voglia di pentirmi d’avcrvi cosi fraternamente conosciuto e goduto; perché, se ciò fusse, la molestia del non veder cotanto amico mi lasciarebbe vivere. E quel che fornisce di trafiggermi è l’avarizia d’un poco d’inchiostro e la miseria di mezzo foglio di carta. Or che debbon fare i trascurati, quando il piú avertito giovane del mondo tralascia con le lettre chi mai noi lascia col core? Se non che il filosofo, tartassato da Cupido malamente, mi risciacqua la bocca col dirmi spesso che state sano e allegro, mi metteva con voi nel numero dei perduti. Ora scrivetemi qualche volta, e date animo a l’amore smisuratissimo ch’io porto a le eccellenti parti di Vostra Signoria, le quali sarien ornamento d’un re, nonché d’un merendante. Io bascio la fronte di quella, pregandola che mi tenga ne la memoria dolce de l’amorevole, dotto e buono messer Gianbattista Centurione, occhio de la mia aflczzione.

Di Venezia, il 4 di decerabre 1537.