Pagina:Aretino, Pietro – Il primo libro delle lettere, 1913 – BEIC 1733141.djvu/417

Da Wikisource.

procurato l’imbattersi in qualche sproposito (>). Ma cosa fatta capo ha. Ed ecco subito il rimedio giornalistico: un bigliettino scherzoso a un amico, vero o supposto, che, inserito fra le altre lettere, sarebbe valso a far piú facilmente perdonare la scelleratezza dell’edizione. Da ciò, assai probabilmente, la letterina al Barbo (*), in cui è il cosi grazioso aforisma: «Gli errori di stampa sono come i peccati nel clero, e certamente si trovaria piú tosto casta e sobria Roma che un’opra corretta». Letterina e aforisma senza dubbio superflui, giacché i lettori del Cinquecento erano di troppo facile contentatura, perché le macchie, che imbruttivano la buccia, li ritenessero dal fare a pugni per cogliere il nuovo frutto appetitoso, che esibiva loro l’inesauribile Pietro Aretino. Non viddi mai—gli scriveva da Porli, il 3 maggio 1538, Bernardino Teodoli (3)— non viddi mai ne l’aprire l’uscio de la Rota in Roma tanta garra fra’ litigiosi per essere i primi allo entrare, quale viddi in comprare l’opra vostra, allora che in un foglio di carta si lesse: IÀtlere del divino messer Pietro Aretino. Ove subito vi abbondò tanta la gente, con tal rumore e calca, eh’anco mi rasserabrava la caritade eh’in alcune cittá a li ospedali si dá a li poveri il giovedí santo. E vi giuro che, per essere dei primi, fui male acconcio. E tale fu il spaccio, per la moltitudine che v’era, che assai restarono con le mani vòte. Ed io era uno di quelli, se un uomo di corte non fosse stato; il quale, volendo mostrare quanta fosse la coglionarla sua, poich’egli e un suo compagno ebbero comprata l’opera vostra, in tanta calca la incominciò a leggere, e, lettala alquanto, vòlse poi vedere se quella del compagno era come la sua, e, leggendo l’altra, messe la sua sopra la mostra de la bottega, ove io era accostato con molti altri. Non fo egli cosi presto a mettercela, quanto io a levarcela ; e, allontanatomi alquanto, non poco piacer presi di lui, accortosi de la sua castroneria, ch’egli facea piú rumore che tutta l’altra gente insieme. E con che bravate, Iddio! Voi avreste detto Renzo, Iacobaccio e Malatesta esserci per nulla. Di poi, vedendo che le bravane non li facevano profitto alcuno, si rendea piú supplichevole, acciò gli fosse restituito il libro suo, che fra Stopino in dimandar, giá tanti anni, il vescovato di Gaieta o il vescovo d’Arimini il cappello. Un successo non mai visto, anzi una frenesia, un delirio, testimoniati a esuberanza dal fatto che ben dieci volte si senti il bisogno (1) Si veda la lett. al Dolce del i«seti. 1541, nel secondo libro delle Lettere ed. cit., f. 23t a; e cfr. Lezio, L’A. e il Fr., p. 258. (2) Si veda sopra p. 353. (3) Lett. all’A., ed cit., I*, 263. Sulla data di questa lettera si veda piú oltre p. 409 sg.