Pagina:Aretino, Pietro – Il secondo libro delle lettere, Vol. II, 1916 – BEIC 1734657.djvu/218

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vi sia scusa; avenga che mi è di piú contentezza l’utilitá, che de le vostre opere cavono le genti, che non mi saria di piacere il conversarvi secondo ch’io ne ho desiderio.

Di Vinezia, il 17 di luglio 1542. DCGXI-IV AL SIGNOR PICCOLOVIO Il Piccolomini gli ha resa giustizia, non prestando fede alla menzognera asserzione che egli, Aretino, avesse sparlalo di lui. Io non so qua! dispiacere avesse piú penetrato con breve asprezze dentro a l’animo di noi due: o il vostro, ne lo esser pur vero ciò che di me vi era suto riferito; o il mio, nel vedervi creder cosa che non pensarò mai. Certo che la maggioranza di ciò si rimanea dal canto mio. Imperoché, nel toccar voi con mano che da me uscisse un cosi tristo ufficio, vi potca dare alterazione in quanto a l’atto de la volontá, eli’io dimostravo mala a chi devevo dimostrarla buona; ma, nel dar fede a cotanta bugia, testimoniava il vostro non mi aver per tale, quale io merito che mi aviate. Onde è da stimare che me ne sarei acorato. Si che vi ringrazio de le beffe che ve ne faceste, tosto che vi fúr dette cotali bugie. Benché da una mente, come la vostra, generosa non è da spettare altro che somma benignitá di giudizio. Per la qual cosa non vi accresco punto di benivolenzia, perché l’amor, che vi porto, non lascia parte del mio core che non ne sia pieno. E ben ne son degne le gentili e singolari virtudi vostre, la infinita perfezzion de le quali ricevono gran torto dal cielo, caso che ellene non si adornino di quegli supremi gradi, di cui meritamente si è ornata fino a qui la modesta e magnanima famiglia dei Piccolomini.

Di Vinezia, il 18 di luglio 1542.