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ventesimoterzo 215


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     Con quel rumor ch’un sacco d’arme cade,
risuona il conte, come il campo tocca.
Il destrier c’ha la testa in libertade,
quello a chi tolto il freno era di bocca,
non piú mirando i boschi che le strade,
con ruinoso corso si trabocca,
spinto di qua e di lá dal timor cieco;
e Mandricardo se ne porta seco.

89
     Doralice che vede la sua guida
uscir del campo e torlesi d’appresso,
e mal restarne senza si confida,
dietro, correndo, il suo ronzin gli ha messo.
Il pagan per orgoglio al destrier grida,
e con mani e con piedi il batte spesso;
e, come non sia bestia, lo minaccia
perché si fermi, e tuttavia piú il caccia.

90
     La bestia, ch’era spaventosa e poltra,
sanza guardarsi ai piè, corre a traverso.
Giá corso avea tre miglia, e seguiva oltra,
s’un fosso a quel desir non era avverso;
che, sanza aver nel fondo o letto o coltra,
ricevè l’uno e l’altro in sé riverso.
Diè Mandricardo in terra aspra percossa;
né però si fiaccò né si roppe ossa.

91
     Quivi si ferma il corridore al fine;
ma non si può guidar, che non ha freno.
Il Tartaro lo tien preso nel crine,
e tutto è di furore e d’ira pieno.
Pensa, e non sa quel che di far destine.
— Pongli la briglia del mio palafreno
(la donna gli dicea); che non è molto
il mio feroce, o sia col freno o sciolto. —