Pagina:Ariosto, Ludovico – Orlando furioso, Vol. II, 1928 – BEIC 1738143.djvu/404

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CANTO TRENTESIMO

1
     Quando vincer da l’impeto e da l’ira
si lascia la ragion, né si difende,
e che ’l cieco furor sí inanzi tira
o mano o lingua, che gli amici offende;
se ben dipoi si piange e si sospira,
non è per questo che l’error s’emende.
Lasso! io mi doglio e affligo invan di quanto
dissi per ira al fin de l’altro canto.

2
     Ma simile son fatto ad uno infermo,
che dopo molta pazïenzia e molta,
quando contra il dolor non ha piú schermo,
cede alla rabbia e a bestemmiar si volta.
Manca il dolor, né l’impeto sta fermo,
che la lingua al dir mal facea sí sciolta;
e si ravvede e pente e n’ha dispetto:
ma quel c’ha detto, non può far non detto.

3
     Ben spero, donne, in vostra cortesia
aver da voi perdon, poi ch’io vel chieggio.
Voi scusarete, che per frenesia,
vinto da l’aspra passion, vaneggio.
Date la colpa alla nimica mia,
che mi fa star, ch’io non potrei star peggio,
e mi fa dir quel di ch’io son poi gramo:
sallo Idio, s’ella ha il torto; essa, s’io l’amo.