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satira prima. 161

Lasciasse il cappellan, mi starei cheto;
255Se ben non gusta mai vitel nè pollo.
     — Questo, dirai, può un servitor discreto
Patir, che quando monsignor suo accresce,
258Accresce anco egli, e n’ha da viver lieto. —
     Ma tal speranza a molti non riesce;
Chè, per dar loco alla famiglia nôva,
261Più d’un vecchio d’ufficio e d’onor esce.
     Camerier, scalco e secretario truova
Il signor degni al grado; e n’hai buon patto,
264Che dal servizio suo non ti rimuova.
     Quanto ben disse il mulattier quel tratto,
Che tornando dal bosco, ebbe la sera
267Nuova che ’l suo padron papa era fatto!
     — Che per me stesse cardinal meglio era:
Ho fin qui avuto da cacciar dui muli,
270Or n’avrò tre: chi più di me ne spera,
     Comperi quanto io n’ho d’aver, due giuli.1




SATIRA SECONDA.




A MESSER ALESSANDRO ARIOSTO

ED A MESSER LUDOVICO DA BAGNO.2


     Io desidero intendere da voi,
Alessandro fratel, compar mio Bagno,
3S’in corte3 è ricordanza più di noi;
     Se più il signor me accusa; se compagno
Per me si leva, e dice la cagione

    bacchetta di levarsi da tavola, lasciasse almeno satollo il ventre: prendendo qui, con altri, cappellano come detto furbescamente in quel significato.

  1. Comperi per due giuli tutte le mie speranze. — Questa Satira nell’autografo è sottoscritta dal poeta. — (Molini.)
  2. Dei fratelli del nostro poeta verrà occasione di parlare in altri luoghi. Del Bagno non si sa se non quanto può raccogliersi da questa medesima Satira.
  3. Quella del cardinale Ippolito D’Este, allora arcivescovo di Strigonia in Unghería, ove l’autore negò di seguirlo; sicchè perdette la sua grazia. — (Molini.)

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