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296 sonetti.

Sonetto VIII.


     Ben che ’l martir sia periglioso e grave,
Che ’l mio misero côr per voi sostiene,
Non m’incresce però, perchè non viene
4Cosa da voi che non mi sia soave:
     Ma non posso negar che non mi grave,
Non mi strugga ed a morte non mi mene,
Che per aprirvi le mie ascose pene
8Non so nè seppi mai volger la chiave.
     Se, perch’io dica, il mal non mi si crede,
E s’a questa fatica afflitta e mesta,
11Se a’ cocenti sospir non si dà fede;
     Che prova più, se non morir, mi resta?
Ma troppo tardi, ahi lasso! si provvede
14Al duol che sola morte manifesta.


Sonetto IX.


     Non fu qui dove Amor tra riso e giôco
Le belle reti al mio côr vago tese?
Non son io quell’ancor che non di poco,
4Ma del meglio di me fui sì cortese?
     Certo qui fu, ch’io raffiguro il lôco,
U’ dolcemente l’ore erano spese;
Quindi l’ésca fu tolta e quindi il fôco,
8Che d’alto incendio un freddo petto accese.
     Ma ch’io sia quel che con lusinghe Amore
Fece, per darlo altrui, dal suo côr scemo,
11S’io n’ho credenza, io n’ho più dubbio assai:
     Chè certo io so che quel che perde il côre,
Lontan arder solea per questi rai;1
14Ed io che son lor presso, agghiaccio e tremo.


  1. I manoscritti posseduti dal Barotti pongono invece: «Chè mi sovvien che quel che perse il còre Arder parea lontan da questi rai.»