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atto quinto. — sc. iii. 273

A far tutta sua vita un uom miserrimo,
Tutti insieme raccolti in così picciolo
Tempo mi versi in capo! e apparecchiarmisi
Altri veggo infiniti e memorabili.
Tu, il mio patron, che mai quando era giovene
Non si partì da casa, ora in decrepita
Età condotto hai qui fin di Sicilia,
Appunto quando m’era più per nuocere
La giunta sua. Cresciuti e minuitogli
E temperati gli hai gli austri e le boree
E gli altri venti, sì che prima giungere
O di poi non poteva, ma il dì proprio
Che ’l suo venir m’avea da dar più incomodo.
Non ti bastava avermi questa pratica
Messa tra i piedi, s’anco il dì medesimo
Tu non facevi l’amorosa pratica,
Sin qui condotta con tanto silenzio,
Di Polinesta e del padron mio Erostrato,
Scoprirsi insieme? Già due anni passano,
Che l’hai tenuta occulta; e certo a studio,
Per accozzare in un dì infelicissimo
E pôrre insieme tutti questi scandoli.
Che debb’io far? che posso far? ah misero!
Tempo non ho da immaginarmi astuzie.
Troppo è pericoloso ogni ora, ogni attimo
Ch’io differisco soccorrere Erostrato.
Conviêmmi, in somma, ritrovar Filogono,
E, senza alcuna finzïon, la istoria
Tutta narrargli, acciò ch’egli rimedio
Truovi alla vita del figliuolo, e subito;
Che s’egli non ha ajuto, è in gran pericolo.
Così è meglio; così far mi delibero.
Benchè son certo ch’estremo supplicio
N’avrò a patir: ma il grande amor che al giovene
Patrone io porto, per l’infiniti obblighi
Ch’io gli ho, ricercan che con mio grandissimo
Danno salvar la sua vita non dubiti.
Ma che farò? Cercherò io Filogono
Per la terra, o starò in casa aspettandolo
Che qui ritomi? Se mi truova in pubblico,
Veggo che levarà le voci in aria,
Nè patirà ascoltarmi, e farà correre