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146 ARS ET LABOR

Eleusini ed essendo in quell'epoca vietato ammettervi forestieri, gli Ateniesi, a fine di non scontentare il loro benefattore, imaginarono i Piccoli Misteri che erano accessibili a tutti, e ai quali, ,dopo Heracle, furono iniziati anche i Diòscuri (Castore e Polluce).

Tuttavia nulla di esatto si conosce dei riti e delle cerimonie che li costituivano. Solo si fa menzione sicura di una purificazione o lustrazione che si compieva su le rive dell'Ilisso; si è supposto che la festa fosse di genere orgiastico e mimico, come la Dionysiache in generale; si celebrava di notte, in parte, e in pare si riannodava al culto dei morti. Certo però l'iniziato portava via da questi Misteri un discreto bagaglio di scienza religiosa che lo metteva in grado di comprendere i simboli e gli spettacoli delle grandi Eleusine.

Ma la festa più importante, sebbene la meno religiosa di quelle dedicate al dio del vino, era la festa delle Grandi Dionysiache o Dionysie urbane (Astikà).

Diretta personalmente dal primo arconte (l'epònimo che dava il suo nome all'anno in corso), essa, sebbene nessuna leggenda religiosa vi si riannodi, è tuttavia la più animata e la più brillante di queste feste, non meno delle Grandi Eleusine e delle stesse Panathenèe che erano la grande festa — direi quasi — patronale della città, rappresentando in modo particolare lo sfarzo della prosperità ateniese. La sua origine rimontava, pare, a Pisistrato, al tempo delle grandi innovazioni religiose, sopra tutto a profitto del culto di Dionyso nell'Attica; ebbe essa però il suo massimo splendore sotto l'egemonia di Atene.

I limiti delle Grandi Dionysiache, che si celebravano alla metà di Elafebolion, erano segnati da due feste: l'Ascelpèia (8 Elaf.) e le Pandia, di data incerta, ma che si facevano alla metà del mese, al plenilunio. E cinque erano gli atti della festa:

1.o il Proàgon;

2.o la processione o pompè;

3.o il concorso ditiràmbico;

4.o il cosmos;

5.o le rappresentazioni dramatiche o àgon.

Dopo la celebrazione della Asclepèia, si cantava una peana e si faceva a nome dello Stato un sacrificio ad Esculapio chiedendo la salute della città per l'imminente primavera; e la folla si recava al Proàgon. Questo che era, come abbiam notato, il primo atto della festa, e precedeva (come il nome indica) l'àgon, servendogli d'introduzione, era un annunzio apanghelia) dei lavori teatrali che di dovevano dare durante la festa e, insieme, la presentazione al pubblico di ogni compagnia tragica e di ogni poeta- All'Odèon il poeta con i suoi attori e col suo coro si avanzavano al pubblico, vestiti non già di costumi teatrali, ma di abiti di festa, e con le chiome coronate di fiori, per conciliarsi il favore dei giudici. Fu in questa sorta di esibizione che apparve Sòfocle dopo la morte di Eurìpide e che Agatone ebbe offerta maniera di mostrare alla folla l'intrepidezza onde Socrate lo felicita nel Convito di Platone.

Il lupo perde il pelo, ma non la consuetudine, verrà fatto forse ad alcuno dei miei tredici lettori di esclamare a questo punto; nè io saprei certo dargli torto. In verità, era un poco istrionico questo costume degli autori di presentarsi in pubblico così per guadagnarsi in anticipazione gli applausi facendo bella mostra di sé: ma ricordiamo innanzi tutto che i più grandi poeti antichi non si peritarono di prender parte a tale comparizione, e poniamo mente, in seguito, a quello che fanno oggi i nostri poeti e i nostri commediografi. Ahimè! che il confronto torna a lor danno! Non si presentano essi infatti al pubblico in abiti di festa coronati di rose, no; ma si fanno intervistare da critici compiacenti, quando non si intervistino a dirittura da sé stessi; ma sollecitano articoli, recensioni, biografie da amici e da conoscenti; ma fanno fare intorno al loro libro un can-can del diavolo, una réclame clamorosa, quando anche non si presentino al pubblico essi stessi leggendo e declamando. Non hanno più quel pelo, ma sono ancora, ahimè, lo stesso lupo ed hanno ancora lo stesso vizio!.... E voi, o vecchi padri latini, ci avete ingannato quando affermaste che “i tempi mutano e noi mutiamo con essi„; chè solo mutano di noi le forme esterne, gli abiti, le consuetudini; il fondo è sempre quello; sotto la parvenza uomo ragionevole c'è pur sempre la sostanza bestiale, sostrato immutabile ed eterno per volgere d'anni e per speciosa novità di scintillanti inverniciature!

Ma torniamo alla serena rievocazione della nostra festa Dionysiaca.

Al proàgon succedeva la pompè o processione, che era, pare, una riproduzione parziale di quella delle Antesterie (che già abbiamo veduta), come nelle quali la statua di Dionyso Eleutério era tolta da un tempio di Linnàe e trasportata in un altro santuario del dio, presso l'Academia, d'onde tornava con grande pompa al Lenèon per presiedere alla sua festa. La processione era magnifica; tutta la città, i preti, i magistrati, i cavalieri, i cittadini ordinati per tribù, gli efèbi vi prendevano parte, e con essi le canèfore, scelte dall'arconte epònimo fra le vergini di Atene, portanti primizie dpogni specie in corbe d'oro; le offerte preziose inviate dagli alleati e dalle colonie, oggetti d'oro, numerose vittime fornite dallo Stato pel sacrificio sfilavano nel corteo, con il toro e la fiala aurea offerti dagli efèbi. Molte erano le evoluzioni e le fermate della marcia presso gli altari e gli edifici sacri, specialmente su l'àgora ove i cori danzavano avanti l'altare degli dei. La più importante fermata, però, probabilmente al punto d'arrivo, era presso un altare su cui scorgeva la statua di Diònyso; là si sacrificavano le vittime, con inni e preghiere. Installato così nel suo teatro, Diònyso riceveva ancora librazioni e assisteva ai vari concorsi in suo onore.

Al concorso ditirambico prendevano parte i più celebri poeti del tempo; e alle Grandi Dionysiache appunto fu eseguito un ditirambo di Pindaro di cui possediamo un bel frammento, tutto penetrato dai soffi imbalsamati e dei fulgori della primavera, fulgida imagine dei sentimenti della folla che, senza alcun misticismo, abbandonandosi alle impressioni presenti della natura, riconosceva la presenza del divin figlio di Sèmele. Era una bella festa, il gusto della quale crebbe più e più negli Ateniesi, e Demòstene, nel quarto secolo, notava come fatto notorio essere lo stipendio del coro più elevato pei ditirambi che per la tragedia.

Ai ditirambi succedeva il comos che si riannodava forse a banchetti ove si celebravano le glorie ditiràmbiche. Durante tutta questa festa Dionyso,, naturalmente (è ancora il vecchio lupo che non perde il vizio!), si mangiava e si beveva, e gli spettatori, che arrivavano alla festa col capo cinto di corone, durante lo spettacolo si versava vino e si davano leccornie.

Le rappresentazioni drammatiche duravano almeno tre giorni. E mi perdoònino i lettori se mi soffermo un poco su questo argomento; ma esso mi pare singolarmente interessante, giacchè dà una idea abbastanza esatta dell'importanza che i Greci davano a tali manifestazioni letterarie e del come e del quanto erano esse legate alla vita civile di tutti i cittadini indistintamente.

Al quinto secolo tre poeti per la Tragedia e per la Commedia erano ammessi al concorso. Ogni poeta tragico presentava una trilogia o piuttosto, contando anche il dramma satirico, una tetralogia; i giudici assegnavano l'ordine a ciascuno dei due concorsi e designavano il vincitore.

Probabilmente, i giudici annunziavano le loro decisioni la sera dell'ultimo giorno delle rappresentazioni drammatiche- Essi, si noti, erano designati a sorte. Prima della festa, i membri del consiglio dei Cinquecento (Bulè) sceglievano in ciascuna delle dieci tribù, si suggellavano, si riponevano su l'Acròpoli, ove erano guardate a vista. Il giorno del concorso l'arconte estraeva un nome da ciascuna urna,