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Parrebbe una cosa da nulla, uno di quelli atti che quotidianamente si compiono con indifferenza, quando non se ne affida addirittura l'incarico ai servi; eppure lo staccare l'ultimo foglietto del vecchio calendario e, poi, il cartoncino a colori che copre quasi gelosamente custodendoli, i trecentosessantacinque foglietti del nuovo, è un atto che si compire sempre con grande trepidazione, con una specie di timoroso sospetto che ci annuvola per un istante la serenità dello spirito.

Un anno nuovo!

Tutto l'insieme dei ricordi, buoni o cattivi, ci si affolla allora precipitosamente al pensiero, e ci meravigliamo di avere, nell'anno trascorso, veduto e udito tante cose nuove; di aver tanto sofferto e goduto; di esserci tanto mutati in così breve tempo. E ci si presentano tanti volti di persone che abbiamo conosciute per la prima volta, e con essi una serie lunga e ininterrotta di fatti, di avvenimenti, di passioni, di dolori, di speranze, di sogni, e con esse le prime rughe e i primi capelli bianchi; e pensiamo. Il risultato di questo bilancio morale e intellettuale non è lo stesso per tutti gli anni e per tutte le persone, anzi è tale e sì diverso, che la penetrazione e la conoscenza esatta di esso darebbe un ottimo e larghissimo materiale agli psicologi del romanzo o ai romanzatori della psicologia, come vi piace.

Ma chi può penetrare bene addentro nell'animo umano? Il socratico nosce te ipsum (vi risparmio la citazione greca) è passato ormai dal frontone del tempio di Delfo su tutte le grammatiche e i dizionari e i libercoli di scuola che i nostri figliuoli vanno sfogliando per riempirsi di scienza la scatola cranica; ma tutti, nel turbine della vita moderna, dopo essere riesciti a tradurre le tre misteriose parole, si passa oltre, pensando — senza gran torto, infine — che Socrate è morto da più di ventitré secoli, e che i filosofi hanno buon tempo.

E infatti, davanti al sorriso di scherno dello spoglio cartoncino dell'anno che è morto e all'interrogazione oscura del calendario nuovo, se una folla di pensieri e di speranze, più o meno incerte, ci assale, non c'è pericolo che noi ci dilunghiamo di troppo ad analizzar minutamente le ragioni e le relazioni di esse; ma ci limitiamo volentieri a facili e brevi rimpianti, per adagiarci mollemente nella dolcezza dei nostri sogni più cari, mentre il fumo della sigaretta si svolge in bizzarre spire nell'aria tranquilla e tiepida dello studio, e l'occhio, che apparentemente va dietro le peripezie del loro svolgimento, segue in realtà i pensieri della mente errabonda; fuori intanto il rovaio passa gelidissimo tra il frastuono e l'allegria della città, per tornare a percuotere le rame spoglie e tristi delle piante e a soffrire su l'immensa campagna, che sogna placidamente la rifioritura sotto il suo candido e sterminato mantello di neve.

Non vi è mai accaduto, in una di queste dolci rêveries nelle quali lo spirito è disposto ad accogliere e ad accarezzare tutti i pensieri e i fantasmi migrabondi che vengono a chiedergli ospitalità, di por mente all'improvvida scelta degli uomini i quali stabilirono che dovesse l'anno cominciare in questo grigio e tristissimo tempo, anzichè nella dolce primavera, quando il sole risplende limpido nel cielo, e per le zolle corre un giocondo fremito di fecondità, e rinascono gli steli, e la vita riprende ovunque il suo palpito, la festiva magnificienza?

Non sorridete; già diciannove secoli or sono un poeta latino rivolgeva al dio Giano, cui era consacrato il gennaio, questa precisa domanda:

“Dì, dunque, perchè il nuovo anno comincia col freddo, mentre sarebbe assai più opportuno che incominciasse nella primavera?

Allora tutto fiorisce, allora veramente il tempo si rinnova e la nuova gemma si gonfia sul suo tralcio fecondo, e l'albero si ricopre di fronde recenti e a fior del suolo spunta l'erba delle sementi,

e gli uccelli fan risuonare l'aria tiepida di armonie, e il greggie scherza e fa l'amore nei prati.

Allora è mite il sole e la pellegrina rondine arriva e costruisce sotto l'alta trave il suo nido fangoso.

Allora si cominciano a lavorare i campi, che l'aratro rinnova. Questa ragione si sarebbe chiaamto principio dell'anno1„.

Una ragione cercò di trovarla Ovidio stesso, ma Ovidio era un poeta.... Il fatto si è che, cominciando dall'anno 153 avanti Cristo, il giorno in cui i Consoli entravano in carica fu sempre il primo di gennaio, che venne quindi considerato il capo d'anno, giacchè è noto come i Romani fossero soliti indicare le loro date col nome dei Consoli dell'anno scorso. E quei bravi uomini dei nostri padri latini, infiammati com'erano dal desiderio di divertirsi, approfittarono subito dell'occasione per fare grandi feste le quali, naturalmente, apparivano inspirate dal sentimento religioso; ma erano in realtà pretesti belli e buoni per buttare da un canto i lavori e darsi alla pazza gioia per le vie del Foro.

E infatti la mattina del primo giorno dell'anno tutte le vie della città brulicavano di popolo: uomini, donne, fanciulli, vestiti di bianco e indirizzati verso un sol punto, la casa dei Consoli, che erano ad attenderli, con la toga prætexta (listata di porpora) circondati dai littori muniti di fasci nuovi. La processione si avviava al Campidoglio, ove si compiva solennemente la cerimonia.

“E già nuovi fasci si avanzano, nuova splende la porpora; e nuovo peso sostiene il nobile avorio.

“I colli non usi al gioco porgono alla scure giovenchi che ne' suoi campi crebbe l'erba Folisca.

“Giove, guardando tutto il mondo dalla sua rocca, nulla ha da osservare che non sia romano.

“Salve, o lieto giorno, e torna sempre più felice, degno di essere festeggiato da un popolo dominatore!2„.

Ma i Romani, da gente positiva qual erano, non si accontentavano della cerimonia religiosa del mattino; si riversavano per la città a scambiarsi auguri e doni, che consistevano per la più, nei primi tempi, in datteri, fichi secchi, vasi di miele e, più tardi, raffinatosi o corrottosi


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  1. Ovid. Fast. Lib. I, 149-160.
  2. Ovid. Fast. Lib. I, 82-88.