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Pagina:Atti del parlamento italiano (1861).djvu/19

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tornata del 16 aprile


quasi tutta la distesa d’Italia, se non se una volta sola, sotto Teodorico.

Ma ormai sono scorsi parecchi secoli che più non esistono vestigia d’un italico regno. I popoli italiani sono vissuti divisi in vari Stati; tempo fa alcuni retti a repubblica, altri sotto a principi, e tutti da alcun tempo in qua sotto a principi. Ed è ora che si ha, o signori, un nuovo regno italico, formato dalla libera volontà dei vari popoli, e dalla loro libera volontà al regno nuovo è stato eletto re Vittorio Emanuele, che pria era Re di Sardegna. E come dunque si debbe chiamare questo primo re d’Italia? Vittorio Emanuele, senza alcuna numerazione, perchè appunto è il primo, ad esempio di tutti i fondatori di grandi imperi. Come dunque si propone di addimandarsi secondo? Una cosa nuova si può mai addimandare seconda? Il primo re d’un nuovo regno, invece di chiamarsi primo, o semplicemente col suo nome, si chiama secondo; dunque si ha una cosa che principia col numero secondo e non col numero primo. (Movimento)

Signori, mi pare ciò sia evidentemente contrario alla logica umana. Ma ciò, se è contrario alla logica umana, è contrario altresì a’ grandi documenti della storia.

Veramente mi ha fatto sorpresa che l’onorevole ministro di agricoltura e commercio, trattandosi di cosa grandissima, come il nuovo regno d’Italia, invece d’invocare esempi grandissimi, abbia invocati esempi così piccoli, come sono il regno del Wirtemberg ed il ducato di Sassonia e simili; il nuovo regno d’Italia è ben altro; gli esempi, che si possono addurre debbono essere tali che ben si convengano a tanto regno.

E molti esempi lascio di allegare, perchè sono stati allegati dall’onorevole Ferrari, e solo mi faccio a rammentarne alcuni pochi, perchè più da vicino si attengono all’Italia.

Federico lo Svevo si noverava II come imperatore germanico, ma per la madre sicula, succedendo alla corona del regno di Sicilia, si noverò I re di Sicilia, perciocchè niuno degli avi suoi normanni aveva portato quel nome.

Carlo l’austro-spagnuolo si noverava V come imperatore germanico, come re di Spagna e re di Sicilia si noverò I.

Per l’esempio poi di Casa Savoia, di Vittorio Amedeo II, non a medaglie, nè a monete, come ha fatto il Ferrari, ma a documento più solenne voglio ricorrere, cioè al Parlamento tenutosi a Palermo il 1714. Il Parlamento lo riconobbe come Vittorio Amedeo, re di Sicilia, e non Vittorio Amedeo II. Il Parlamento siciliano non avrebbe ciò permesso, non avrebbe esso allora accondisceso che il concetto de) regno siculo menomasse, come ora i Siciliani hanno inteso d’ingrandirsi e non menomarsi con congiungersi agli altri Stati d’Italia sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele.

Non comprendo poi l’argomento dell’onorevole ministro di agricoltura e commercio, l’argomento dell’adozione.

Signori, quando si tratta di tanta importante questione, non istà questa picciola similitudine, cosa anche più piccola di quella del ducato di Wurtemberg e del ducato di Sassonia. Qui non abbiamo adozione; qui abbiamo popoli liberi, i quali liberamente si sono uniti, i quali liberamente hanno proclamato Vittorio Emanuele a loro re.

Ed aggiungo, o signori, che in Napoli ed in Sicilia gli alti attualmente si fanno in nome di Vittorio Emanuele, senza che sia aggiunto II. (Sensazione) Sarebbe ciò una novità che sorprenderebbe.

Anco, quanto alla tradizione, neppure comprendo l’argomentazione del ministro d’agricoltura e commercio.

La tradizione è certamente cosa rispettabile, e noi non offendiamo affatto la tradizione quando scegliamo Vittorio
Emanuele; ma noi, volendo Vittorio Emanuele, lo vogliamo per le sue virtù, e non giammai perchè sia stato re di Sardegna. (Movimento a destra) Noi lo vogliamo perchè egli è maggiore de’ suoi avi, ed è maggiore di tutti gli altri principi d’Italia, i quali non hanno saputo mantenere la fede data ai loro popoli, ed egli ha saputo mantenerla. Noi vogliamo Vittorio Emanuele perchè egli ha combattuto le battaglie della patria, ed è il propugnatore della libertà e dell’indipendenza d’Italia.

Per questi titoli e non altri sulla testa di Vittorio Emanuele si pone la più splendida, la più superba corona del mondo; corona formata di molteplici belle e gemmate corone in uno conserte. E come mai pretendere che essa non debba contare da sè il suo principio? Come pretendere che essa debba accattarlo da un’altra, che in sè medesima contiene come sua parte? Oh! cosa sì grande non s’impicciolisce. La proposta vostra, signori ministri, urla colla logica umana, rifiuta la storia, scema l’eccelsa dignità dell’italico regno, getta ombra sulla significazione della volontà nazionale.

Passo ora, o signori, a discorrere sull’altra parte della formola; e lo fo, perchè, quando già qui si trattò della dichiarazione di fatto del regno d’Italia, vi fu alcuno il quale voleva rigettare le parole per la grazia di Dio, e perchè in alcun ufficio si è andato alla medesima opinione.

Per dieci secoli, o signori, non si è visto mai presso gente cristiana, che alcun principe si sia intitolato senza invocare il nome di Dio.

Quando, per una straordinarietà di eventi, un prefetto del palazzo de’ Merovei diventò re, confessò esserlo per grazia di Dio, e non per propria virtù; ed il figliuolo suo, che i secoli hanno sopranominato Magno, l’ultimo de’ barbari, che ogni altro barbaro invasore arrestò, e tentò di rifabbricare il crollato impero nostro sul mondo, disse: sè essere re de’Franchi ed imperatore romano per la grazia di Dio, anzi, per la sua misericordia. Quindi la storia va più in là del tempo che parmi avere segnato l’onorevole Ferrari.

Di allora in poi ogni principe di piccolo o vasto Stato, debole o potentissimo, buono o reo, non si è più argomentato di dire che tale sia se non per la grazia di Dio, cioè per la volontà di Colui che è e che fa e disfa regni e re, disperge popoli numerosi cenere al vento, da misera e selvaggia tribù fa sorgere popolo gigante.

Fu progresso quella confessione per l’uguaglianza e la libertà de’popoli, si negò la menzognera sovrumana natura de’polenti della terra, si condannò l’oscena idolatria di Roma pagana, di cui gl’imperatori, quasi sempre iniqui o dementi, osavano di chiamarsi divi, e divi li acclamava la turba vile degli adulatori, di cui non v’ha mai penuria nel mondo.

Quella formola dunque è tutto altro che la consacrazione del preteso diritto divino de’ Re, non è la traduzione di omnis potestas a Deo nel falso senso attribuito a queste parole. Imperocchè, anco queste parole veracemente non significano che i Re vengano direttamente da Dio collocati sui troni, ma significano solo, che Dio è la causa prima, infinita, eterna di tutte le create cose, ed il senso diverso è falso, è empio; imperocchè, se Dio concede a felicitare i popoli Marco Aurelio, la delizia del genere umano, e Luigi il Santo, lascia quando negl’impenetrabili suoi arcani vuole terribilmente flagellare i popoli, che figliuolo di Marco Aurelio sia lo scellerato Commodo, che nipote di Luigi il Santo sia lo scellerato Luigi XI; lascia che quel Marco Aurelio, ottenebrata la mente sotto il fantasma della ragione di Stato, si snaturi e crudele perseguiti gli Unti.

Ma avete poi, o signori, considerato abbastanza quale sa-