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tornata del 16 aprile


giche, ch’è una selva selvaggia, d’onde neppur Dante, colla scorta stessa del suo dottore, non saprebbe uscire. Ma lasciatemi dire che, se la grazia di Dio si manifestasse a questo modo, si manifestasse, cioè, col dare comando, titoli, signoria, corone e tiare, a guardarci intorno, nel presente come nel passato, parlando dal tetto in giù, bisognerebbe proprio dire che la grazia di Dio il più delle volte si è dimostrata cieca come una talpa.

Io non so dunque quello che si vale la vostra formola: dipendenza dai papi, no; libertà sconfinata al principe, no, no; resta il sentimento religioso a cui accennate; ma, o io grandemente m’inganno, o il sentimento religioso non c’entra per nulla; perchè, spremete fin che volete, tutti quanti siamo, grandi e piccoli, voi ministri, noi deputati, principi e spazzacamini, la quercia alta cinquanta cubiti, il virgulto due pollici, tutti siamo quel che siamo per la grazia di Dio.

La vostra formola è dunque ciò che i Francesi chiamano une banalitè, une chose banale, una cosa d’uso, triviale, un modo di dire privo di senso, perfettamente inutile.

Ma, transeat; la Camera forse ve la menerà buona, perchè, adesso che l’avete presentata, che il Senato l’ha sancita, ripudiarla noi, dicono che farebbe cattivo effetto, che sarebbe uno scandalo, che strillerebbero come galline. Io stesso che strillo qui, vi darei il mio voto, se non fosse che molti c’incolpano d’ipocrisia. Scusate; vi hanno udito proclamare con tanta ostentazione: siamo cristiani ortodossi noi; noi non ci vogliamo scostare nè d’un dito dalla tradizione degli avi; vogliamo guarentita l’indipendenza del pontificato, la maestà, la pompa della Chiesa; guarentito il dogma, guarentita la fede; che so altro ancora volete guarentito; vi hanno udito parlare con terrore di dugento milioni di cattolici, come d’un esercito già crociato, che non ci pensano neppure, li, coi fucili spianati, pronti a far fuoco su voi, su noi, su quella stessa corona, sulla quale scrivete a larghi caratteri: per la grazia di Dio, come per levarvi un parafulmine; vi hanno veduto far atti quasi di schifo e di ribrezzo ai soli nomi di Hegel e di Strauss, usciti a caso, furtivamente, per semplice incidenza, dalla bocca d’un nobile oratore; ebbene, da tutte queste cose i tristi argomentano che abbiamo paura; argomentano che ci proviamo, c’industriamo a prendere, come si suol dire, il Turco pei baffi, con un po’ d’ipocrisia. Sapete bene: chi mal fa, mal pensa.

Se tale fosse il vostro intendimento, io per me non avrei l’onore di essere del vostro parere; nè la Camera, nè la nazione vi seguirebbero per questa via. Oh che! Credereste mai che Roma, i vescovi, i cardinali, i Dupanloup, i Larochejaquelin e tutti quanti dubitino della nostra religione? Che ci sospettino di voler fare uno scisma? Oibò! Ma giova loro che si creda.

E d’altra parte, poichè ci sono, credete voi che quando affermano con tanta prosopopea che il temporale è indispensabile per esercitare degnamente, liberamente il pontificato, siano di buona fede? Mai no, mai no! La storia la sanno meglio di noi; lo sanno meglio di noi quello che loro impone il Vangelo, quello che si volevano gli apostoli. Ma... ma! Il temporale procura loro ricchezze, onoranze, cortigiani, signoria, tutto ciò che lusinga le ambizioni terrene, tutto ciò che soddisfa le passioni umane, e rinunciarvi per non occuparsi che delle sublimi incombenze del sacerdozio secondo i dettami di Gesù Cristo, a rendere migliori gli uomini ed obbedire alle leggi» par loro un’umiliazione, par loro di farsi vassalli dopo essere stati dominatori.

Signori, volete andare a Roma e starvi: ci andremo a Roma e ci staremo, perchè l’Italia vuole la sua Roma: la sua Roma,

notate bene, giacchè, oh vituperio! ci avevano ridotti a parlar di Roma, come se Roma non fosse Italia! Vi sono ancora degli ostacoli, voi confidate rimoverli colla diplomazia, lo spero; e se la diplomazia fallisse, se la diplomazia si dimostrasse impotente, e non pertanto andremo a Roma. O in un modo o nell’altro, noi sapremo persuadere al mondo che dobbiamo andare a Roma, che non possiamo a meno di andarvi, ch’è il nostro dritto. Ma andiamoci colla fronte scoperta, senza i vecchiumi che non dicono più nulla, e inventati per un tristo fine. Nessuno poi ci sospetti d’ipocrisia, ch’è mantello indegno.

Re d’Italia, per volontà della nazione, è il più bello, il più santo, il più incontrastabile, il più legittimo di tutti i diritti. (Segni d’approvazione) E siate certi che Dio lo benedirà, perchè Dio vuole il giusto, Dio vuole l’onesto, Dio vuole che quando i popoli consentono ad essere governati da un re, lo siano da un re galantuomo come il nostro (Bene!); e le vane parole Dio le sperde; e dell’incenso dell’ipocrisia qual conto egli faccia, lo sapremo quando ci troveremo tutti nudi nella valle di Giosafatte. (Vivi segni di approvazione da varii banchi)

presidente. Ha facoltà di parlare il deputato Doria.

doria. Allorquando fu proposta la legge proclamatrice dell’unità del regno d’Italia, ridonante alla madre di tutte le attuali civiltà il diritto di assidersi al desco delle grandi nazioni, versarono i deputati del mezzogiorno in penosa perplessità.

Da un lato sentivano la prepotente necessità di concorrere coi fratelli della Penisola, unanimi, speranzosi, fiduciosi al fiat di nostra redenzione, affinchè Europa civile sentisse, che uno è il bisogno, uno il volere dal Tirreno all’Adriatico, dall’Alpe al Peloro. Nè poteva esser nato in Italia, chiunque non avesse sentito piegarsi riverente le ginocchia all’Essere degli esseri, per averlo riservato alla ineffabile gioia di quel sublime spettacolo.

Che cosa eravamo un momento prima? Vel dica l’atroce sarcasmo del teutono Metternich: una pura espressione geografica! Dunque, stranieri in casa nostra, Italiani senza una patria italiana!

E pur troppo la storia dava ragione al superbo: da secoli non ci presenta che una gente indigena sempre conquisa e gemente; ed altra straniera, conquistatrice ed insultante. Che monta il nome di questa? Longobardi e Goti, Normanni e Spagnuoli, Francesi e Tedeschi, furono tutti dello stesso conio: pesarono tutti su noi, come Spartani sopra iloti; ci astrinsero a servir sempre o vincitori, o vinti: ci retribuirono con la barbarie dello incivilimento, che in essi aveano inoculato i nostri padri, i Romani.

Per quale inconcepibile fenomeno la sveltezza delle menti italiche si è lasciata soggiogare dalla fierezza dei barbari, dalla superbia ispana, dalla leggerezza francese, dalla brutalità tedesca?

La ragione non è punto arcana: perchè tutti gl’invasori compresero ed attuarono il gesuitico dividi e regna; ma noi invasi non mai comprendemmo davvero che l’unione fa la forza.

Dunque la storia non aveva efficaci parole per noi! dunque avevamo perduto non solo il bene dell’intelletto, ma ben anco quello della memoria! Diversamente non avremmo obbliato che la facoltà assimilatrice avea renduto Roma la signora del mondo; l’unione delle repubblichette del medio evo avea fiaccato la potenza del Barbarossa.

In rapporto alla politica eravamo dunque scissi, deboli, sprezzati, conculcati. Stavamo forse meglio nella vita interna?

Ma chi ignora di noi, che, come altrove la scienza, nel