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del conte monaldo leopardi 109


XLVI.

Morte del mio zio Carlo.

Nel giorno tre di Febraro dell’anno 1799 il mio Prozìo amorosissimo canonico Carlo Leopardi non aggravato da veruna infermità ma per sola vecchiezza, morì di anni ottantaquattro. Era vissuto da santo, e morì come un santo, senza ambascie e senza dolori ma spirando placidamente nelle braccia del Signore. In vita agitatissimo dagli scrupoli che lo tormentavano compassionevolmente, godè in morte di una tranquillità perfetta. Generosissimo sempre, dava in elemosina tutta la rendita di circa mille scudi che traeva dai benefizii ecclesiastici, toltane qualche discreta spesa che andava facendo per utile della Famiglia in riguardo al vitto che solo ne riceveva, quantunque dovesse averne assegno e trattamento completo. Ora comprava una casuccia che conveniva per la sua situazione, ora ristaurava ed abbelliva una Fabrica, e non passava un anno senza che la casa ricevesse qualche nuova dimostrazione della sua amorevolezza. Tutto il suo tesoro ereditato da me furono alcuni bajocchi di rame. Nelli quaranta anni in cui servì il coro prima di essere giubilato, non mancò una volta sola e non pagò una puntatura. Si dilettava di architettura, e sino all’ultima vecchiaja tutte le fabriche di Recanati vennero dirette da lui. Egli ridusse la Catedrale da un brutto gotico alla attuale sufficiente decenza. Il cappellone di quella chiesa, la chiesa del Suffragio, il prospetto, e la scala della nostra casa sono opere sue. Avendo sortito dalla natura un naturale sommamente focoso lo comprimeva talmente che veniva creduto un uomo mansuetissimo. In un giorno di vigilia pressandolo mia Madre e i miei zii a mangi