Pagina:Avventure di Robinson Crusoe.djvu/625

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robinson crusoe 553

nelle viscere un’angoscia che mi è difficile lo spiegare, non simile ai dolori colici, ma una straziante convulsione che la fame eccitava in essi; verso notte si sedò alquanto, convertendosi in un’ardente voglia di tale o tal altro cibo, simile, io suppongo, alle voglie delle donne incinte.

«Bevei un’altra tazza d’acqua inzuccherata, ma il mio stomaco ebbe a schifo lo zucchero e la rigettò immantinente; ne presi indi un’altra d’acqua semplice, e questa la ritenni. Mi posi in letto pregando di cuore il buon Dio che mi chiamasse ad un mondo migliore traendomi da questi stenti. Acchetato l’animo mio in tale speranza, dormii alcun poco; indi svegliatami, credei di morire allora sopraffatta e rifinita dai vapori che esalano da uno stomaco vuoto. Raccomandai la mia anima a Dio, e se qualcuno m’avesse gettata in mare, l’avrei avuta per una carità.

«In tutto il descritto tempo la mia padrona stava coricata vicino a me, moribonda anch’essa, come ben doveva immaginarmelo, ma fornita di maggior pazienza, che non ne aveva io, nel sopportare la sua disgrazia. Ella diede l’ultimo tozzo di pane rimastole al mio giovine padrone, al suo figliuolo, che non voleva accettarlo; ma ella lo costrinse a mangiarlo: fu questo, io penso, che gli salvò la vita.

«Sul far del mattino m’addormentai nuovamente, e allo svegliarmi fui sorpresa da un impeto di pianto, a cui succedè un secondo accesso di famelica frenesia. Tornai dunque nel mio vorace furore