Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/100

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vuto limitare le ore del lavoro: vale a dire che potevamo esporci all’aperto, soltanto di buon mattino, prima che il sole si mostrasse dalla grande montagna del Zadamba e poscia ripigliare l’opera nelle tarde ore del pomeriggio.

Nelle ore più calde ognuno riducevasi sotto alcuni alberi di tamarindo, e là accudiva a varie faccende, come a rattoppare le vesti, a fabbricare masserizie ed arnesi da cucina, talvolta anche a tracciare i piani topografici del futuro paese.

Quando, coll’assistenza degli indigeni, si accumularono i materiali, ci diemmo a lavorare colla massima alacrità.

Colombo livellò un tratto di terreno per farvi sorgere un piccolo giardino, e con alcuni indigeni, lasciati a sua esclusiva disposizione, si diede a edificare una capanna di granito, la quale doveva essere la nostra rocca, la cittadella inespugnabile della colonia.

Quella capanna non contava che due stanze, ed anche queste di non grande dimensione. Il padre Stella era con me, e attendevamo a costruirci una bella capanna nel centro dello steccato. Come base dell’operazione avevamo impiantato solidamente tre grossi tronchi d’albero; a questi innestammo dei traversi; quindi altri rami obliqui dovevano servire di base alla costruzione del tetto. In mancanza di chiodi ci servivano le corteccie verdi delle gigantesche adansonie, che, come dissi più sopra, dopo che siano state ammollite nell’acqua, si restringono siffattamente, da servire allo scopo meglio di qualunque ammagliatura metallica.

Il tetto venne formato mediante un tessuto di frasche e una grande quantità di paglia bene disposta ed intrecciata, da non permettere alle più fitte pioggie