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della colonia, mi diedi ad erigerne una di fronte, la quale era destinata a cucina. Provvedemmo in brevi ore il legname necessario, consistente per la massima parte in corteccie di adansonia.

Mentre stavamo disponendo il materiale entro la grande capanna, un grosso e lungo serpente sbucò fuori da un angolo, e spiccato un salto, si piantò verticalmente ritto in mezzo a noi. Uno degli indigeni afferrato tosto un grosso ramo, gli menò un colpo alla testa, esempio che imitammo noi pure. E chi adoperando legni, chi pietre, riuscimmo a farlo uscire, mezzo sbalordito, dalla capanna.

Appena però trovossi all’aria aperta, il rettile riprese animo e gagliardìa; rizzossi nuovamente sulla punta della coda e, gonfiandosi e assottigliandosi alternativamente, mandava contro di noi delle soffiate che davvero c’impaurivano.

Io corsi a prendere un fucile, e mentre la bestia, addocchiato uno scampo fra la fessura d’un masso di granito, stava per nascondervisi, lasciai andare il colpo e le stritolai a mezzo contro la pietra. Un indigeno fu presto ad afferrarla per la coda, e questa, con buona parte del corpo, gli restò subito in mano. Ma le due metà agivano del pari come se d’un serpente ne avessi fatto due; la parte della coda movevasi convulsivamente a mo’ delle anguille, la superiore era rimasta colla testa nascosta in mezzo alla fessure.

Colombo, accorso allora, esclamò: Contac, son quà io, camerati; e fasciatasi la mano col fazzoletto, senza tanti preamboli, lo strappò dal rifugio e lo slanciò sul terreno. Quindi presomi il facile di mano, gli sfracellò la testa a colpi di calcio.

Non è a dirsi l’ilarità scoppiata fra gl’indigeni a