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quella brillante sortita di Colombo; io stesso non ne poteva più: tanto buffe erano le pose del nostro compagno, che, se si volesse riprodurle a quadri plastici, difficilmente si potrebbero imitare. Quel serpente era lungo circa due metri, con un diametro in grossezza di dieci centimetri; magnificamente squamato, iridescente e screziato a scacchi gialli ed azzurri.

Gl’indigeni ci assicurarono essere velenoso e molto forte; ma che, purgato del veleno, secondo un sistema in uso presso i medesimi, diveniva buonissimo a mangiarsi. Dopo tutto, nessuno di noi pensò punto d’approfittarne.

In pochi giorni anche la terza capanna fa innalzata, e in breve ne sorsero altre tre in diverse posizioni. Colombo era occupatissimo intorno alla sua che costruivasi in granito, entro il piccolo giardino da lui lavorato. Ivi riuscì ad ottenere un serbatoio d’acqua, condottavi da una piccola sorgente, circondandolo di un anello di pietra a guisa di cisterna, entro a cui allignarono ben presto delle tartarughe d’acqua dolce, aventi zampe a membrana somigliantissime alle pinne dei pesci, ma in tutto il resto del corpo e nel guscio affatto eguali alle nostre.

Questi animali, pascendosi di certi insetti che si depositavano nel fondo, mantenevano l’acqua in istato di limpidezza.

Malgrado i calori eccessivi di quelle regioni, l’acqua era di giorno rigidissima, di notte assai calda, per cui, prima dell’imbrunire, avevamo cura di riempirne i nostri otri di pelle di montone, che ce la mantenevano più fresca.

Un giorno, mi ricordo che era di domenica, due servi del signor Stella in compagnia di due indigeni