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XII.

Sono venduto!


Non mi ricordo più quali e quanti vicoli ci fecero traversare; so unicamente che giunti in una specie di catapecchia umida e buia, fummo gettati come cenci sulla nuda terra, mentre con aria di scherno ci veniva augurata la buona notte.

È inutile il dire che nessuno di noi potè chiuder occhio, tanto ci angustiava il pensare a quel che sarebbe avvenuto di noi il giorno dopo, che era appunto la vigilia di Ceppo. Chi si vedeva già arrostito, chi fatto in umido, chi lesso. Il povero Cocò ci assicurava d’aver vedute in sogno, la notte precedente, le sue care defunte, e quello diceva esser segno sicurissimo di morte vicina.

Non mi dava l’animo di ribattere quelle sciocchezze, e tacevo. Tacevo, ma la mia testa non era più con me.

Ripensavo, mesto, al pollaio nativo, alla mamma, al signor Giampaolo, a quell’angelo della Marietta e un poco al caro signor Alberto, che anche lui, poverino, mi voleva tanto bene. Che faceva a quell’ora?

Dormivano di sicuro, e forse i miei padroncini sognavano le chicche e i balocchi che sarebbero stati loro regalati al mattino.

Oh chi avrebbe detto loro che il povero pulcino si trovava appunto allora in angustie mortali? Poi ri-