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IL BANDELLO

al dotto

messer marco antonio sabino


So che vi sarete meravigliato, Sabino mio candidissimo, de la mia epistola latina che io ho scritta al signor conte Lazaro Tedesco piacentino in lode de la Calipsichia del nostro Radino, che egli ha fatto stampar in fronte di essa sua Calipsichia. Io, pregato da lui, non gli seppi negare di spender un poco d’inchiostro suso un foglio lodando l’opera, la quale nel vero è mirabile, artificiosa, cristiana e composta con ingegno grandissimo e tutta cosparsa di begli ornamenti poetici e filosofici. Il Radino s’è sforzato in quella, quanto piú gli è stato possibile, d’imitare ed effingere la frasi e il filo de lo stile apuleiano, dicendo che cotal materia ama e ricerca piú tosto quel modo di scrivere che altro che ci sia, onde anco volle che io ne toccassi alcuna parola. Il che, per dir il vero, feci io molto mal volentieri e contra ogni mia voglia. Ma egli m’era sopra quando io scriveva, e mi sforzava a dir a suo modo, o bene o male ch’io dicessi. Sapeva ben io che il reverendissimo e dottissimo monsignor Domenico cardinale Grimani in una sua lunga epistola impressa in Roma vitupera questa frasi apuleiana come molto allontanata dal candore e maestá de la lingua latina, e questo dir apuleiano chiama egli la « feccia de l’eloquenza latina », e senza fine riprende coloro che cercano d’imitarlo, come riprensibili meritamente si rendeno tutti quelli che avendo generoso e odorato vino in casa vanno ricercando agresto od aceto per bere, o vero lino che caminando si senta aver grandissima sete e abbattutosi ad una chiara e fresca fontana a cui sia vicino un fetido e torbido pantano, lasciate le dolci e saporose acque fontanili, beve le guaste del pantano. In questo