Pagina:Bandello - Novelle. 2, 1853.djvu/162

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vendicar la morte del fratello, figliuolo o amico, il morto si potesse ritornare in vita o una ricevuta ingiuria fare che fatta non fosse, io direi che senza rispetto veruno l’uomo devesse vendicarsi. Ma non seguendo nessuna di queste cose, mi par che prima che si venga a giunger male a male, l’uomo deverebbe molto ben discorrere il fine che ne può seguire; e tanto più che essendo cristiani e volendo esser degni di sì glorioso nome, debbiamo esser imitatori di Cristo che il perdonar ai nemici ci comanda. Ma io non voglio più oltra dire, perciò che a scrivervi non mi mossi per predicare ma per mandarvi questa istoria. State sano.


NOVELLA LV
Un castellano trovata la moglie in adulterio col suo signore gli ammazza, ond’egli con molti altri è miserabilmente morto.


Egli in effetto è gran cosa che ordinariamente il più dei nostri ragionamenti si veggiano cascare a parlar dei casi amorosi, e massimamente quando il nostro vertuoso messer Gian Battista Schiaffenato ci è di compagnia, che sempre ha alcuna bella rima amorosa o epigramma o elegia de le sue dotte composizioni da recitare. E perchè s’è detto che un innamorato mai non deverebbe adirarsi, dico che l’adirarsi in ogni cosa sta male, quando il furor de l’ira adombra il lume de la ragione, perchè il più de le volte l’uomo che da l’ira è vinto fa strabocchevoli errori che poi così di leggero non si ponno emendare, come in una mia istoria che raccontarvi intendo, apertamente vedrete. Si vuole l’uomo adirare ne le cose mal fatte, ma con temperamento, non lasciando trascorrer la còlera fuor dei debiti termini. Se mi dirà alcuno che sia cosa più facile a dire che a fare, io lo confesso; ma ben gli ricordo che la vertù consiste circa le cose difficili, e dove ne l’operare è maggior difficultà quivi è la gloria maggiore. Ora venendo a la narrazione de la mia novella, devete sapere che, non sono molti anni, ne la famiglia dei Trinci, al tempo che Braccio Montone e Sforza Attendulo capi de la milizia italiana fiorivano, furono tre fratelli, chiamati il primo Niccolò, Cesare il secondo e l’ultimo Corrado. Tenevano costoro il dominio di Foligno, di Nocera, di Trevio e di molte altre terre nel ducato di Spoleto, e quelle con fratevole amore governavano, non si curando altrimenti dividere il nobil e ricco stato. Avvenne che andando assai sovente Niccolò da la città di Foligno a quella di