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lettera quarantottesima dell’abate Carlo Signoris di Buronzo a Tommaso Maurizio Micheli

[È piú facile curare l’umor nero in altrui che in se stessi.]

Non ho una parola da replicarle, signor Micheli mio. Ella ha ragione, arciragione, dandomi la baia che mi dá; ed io sapeva com’Ella me l’avrebbe data, anche prima le scrivessi di questa mia malnata malinconia. Vuol Ella piu, che anch’io me ne sgrido, anch’io me ne biasimo, e molto piú acremente che Vossignoria non sa fare? Si, signore: io mi scuoto, io mi dibatto il piú ch’io posso, ché vorrei pure tornar ad essere quell’abate Carlo che sono sempre stato; ma non trovo che la mi venga fatta. O sia questo ritrovarmi in un perfetto centro d’ozio dopo d’essere stato per tanti mesi avvolto in un vortice di faccendacce grandi; o sia quella misura che la fantasia va pigliando tuttora della tanta distanza che mi separa da que’ tanti amici co’ quali ho dolcemente vissi questi sei anni passati; o sia il mio essere una spezie di forestiero nella mia propia patria; o sia l’aria, o sieno i cibi, o sia altra cosa ch’io non so indovinare: il fatto sta che quest’umor nero io non mel so cacciar d’ indosso; che non mi so far tornare in capo di quelle immagini Ch’Ella soleva chiamare «color di rosa»; che non posso fare di non sentirmi in certa maniera Lamina nel corpo fredda, languida, abbuiata e piena sempre di svogliatezza, d’increscimento, di sommissimo tedio. E il peggio è pure che quanto piú mi provo ad uscire di questa limacciosa pozzanghera, piú mi v’affondo, piú mi c’imbratto. Quanto non l’ho io sgridata, non è un anno, del suo lasciarsi bistrattare da questo stesso male? Me lo ricordo molto bene; e conosco e confesso eh’ Ella è lontanissima dall’aversi il torto, battendomi in faccia quelli stessi argomenti