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LETTERA VENTISEESIMA

di Francesco Ageno a Niccolò Defranchi

[La lingua che s’usa ormai parlando e scrivendo in ogni parte d’Italia è una cosaccia tanto vile, tanto schifosa, da farci recere le budella, se un po’ di gusto di lingua rimanesse ancora in qualche parte della nostra contrada.] Non c’è modo, signor Niccolò stimatissimo, ch’io possa soffrire neanco l’idea di quel vostro paragone; non c’è modo per mia fé! Sono con voi, signor Niccolò, quando voi mi dite che la lingua toscana è d’un’ indole affatto docile, d’ un genio sommamente versatile, d’un naturale arrendevole, pastosissimo e da farne qualsissia buona cosa con una penna in mano. Sono con Vossignoria, quando dite che la lingua toscana è piú d’ogn ’altra soave, chiara e sonora nella pronuncia; che piú volentieri d’ogn’altra si piega ad ogni sorte d’armonia quando s’usa nel canto; e che riesce sopr’ogn’ altra grata, piacevole e dilettosa anco agli orecchi di chi non n’intende sillaba, sempre ch’ella è parlata da un esatto, copioso e libero dicitore. Queste buone doti, a considerarla in astratto e quale dovrebbe o potrebb’ essere, la lingua toscana le possiede in un grado altissimo: vel concedo, e sono con voi in anima e in corpo su tutti questi punti. Voglio anzi aggiungere questo di mio al vostro panegirico d’essa: che, dove Dante non è né buio né barbaro; dove il Petrarca non s’impicciola co’ suoi grami concettuzzi sul lauro; dove il Pulci non è né sciatto né ghiribizzoso né sbaragliato; dove il Berni non si lascia del tutto ire alla troppo facil vena; dove l’ Ariosto s’è sconcio assai a correggere e a raffazzonare; dove il Tasso fugge il puerile egualmente che il tronfio; dove il Lippi non esce a bello studio di via per ire ad acchiappare, come fanciullo, una qualche lucciola di ribobolo; e dove finalmente il Metastasio si sta da buon senno baciando e mordendo con