Pagina:Barrili - Castel Gavone.djvu/238

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CAPITOLO XII.

Nel quale si dimostra l’ingratitudine d’un ventre satollo.


Il Maso ha mangiato, anzi no, dico male, ha scuffiato, macinato a due palmenti, il palmento della fame e quello della gioventù. Adesso sfa facendo la sua meriggiata all’aperto, al riparo del sole, colla schiena contro l’assito della baracca, mentre il paggio del suo anfitrione sta rigovernando i tondini e le scodelle imbrattate. Anch’egli si piglierà quella briga, ma cominciando dal giorno vegnente; per ora sta a vedere e fa conto di schiacciare un sonnellino, in onore dell’ospitalità ricevuta.

Anche il Picchiasodo si era posto a giacere nella sua cuccia di strame, e già aveva legato l’asino a buona caviglia, allorquando vennero ad annunziargli un prigioniero che aveva chiesto di parlargli a quattr’occhi.

Il Maso, senza volerlo, aveva l’orecchio di contro al sottile tramezzo. «Un prigioniero! a quattr’occhi!» Ragione per lui di aprirne due; e magari ci avesse avuto i cento del mitologico guardiano di Danae, che tanto li avrebbe messi tutti in opera, anco senza sapere il cattivo servizio che rese ad Argo il non averne adoperati che cinquanta nella sua famosa nottata.