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Poco stante, il prigioniero entrò nella baracca di Anselmo Campora e i due balestrieri che lo avevano scortato si ritrassero fuori. Il paggio, intento a strofinare le sue stoviglie, dava le spalle al Maso; e il nostro curioso ne profittò per dare una sbirciata tra le commessure delle assi. Indi ripigliò la sua prima postura, ricacciando in corpo un grido di meraviglia, che era ad un pelo di uscirgli. Aveva in quell’attimo riconosciuto il Sangonetto; Maso avea visto Tommaso.
Non meno meravigliato di lui, il Picchiasodo inarcò le ciglia alla vista del prigioniero che gli domandava un colloquio.
— Ah, ah! — diss’egli, facendo bocca da ridere. — Il messere dell’archibugio?
— Ma sì, ma sì! — balbettò il Sangonetto, arrossendo. — Ve ne ricordate ancora? Ho piacere che sia così, per pigliar animo a dirvi un mondo di cose. Del resto, — soggiunse con un certo sussiego, — la mia presenza qui vi dirà che non ero soltanto un cacciatore da passeri.
— Eh via! — sbuffò il Picchiasodo, rincalzando la frase con una alzata di spalle. — Sareste per caso venuto a chiedere che io mi ripigli ciò che vi ho detto? Amerei meglio farvi dire dell’altro da quella bella milanese, che non avete voluto saggiare, nè dalla punta nè dal manico, all’osteria dell’Altino. —
Così dicendo, Anselmo Campora accennava il suo spadone, che pendeva dalla parete al posto della libbia pasquale. Ma il Sangonetto fece un gesto contrito, come per dirgli che non aveva bisogno di tanto; la qual cosa fece spianar le ciglia al suo ospite iracondo.