Pagina:Barrili - Castel Gavone.djvu/322

Da Wikisource.

— 311 —

tale. Giunto a fatica presso uno di que’ massi biancastri che sporgono fuor della ripida costa, sotto la roccia dell’Aurèra, si gittò per morto a rifugio entro una fratta di arbusti e sterpi intralciati. Colà ristette, trattenendo a forza il respiro, sperando che il suo nemico avesse smarrito la traccia.

E ciò temettero dal canto loro i soldati genovesi. Il Campora già si pentiva di aver fatto al briccone un così largo partito. Ma poco stante comparve il Maso al piè dello scoglio; i soldati lo videro star perplesso un istante, indi con passo guardingo inoltrarsi, strisciar quasi a mo’ di serpente lunghesso i fianchi scoscesi del masso. Quel che seguisse, non fu dato ad essi di scorgere; bensì parve loro di udire a qualche distanza un grido lamentevole. Indi a non molto, una massa informe, come un sasso, o un batuffolo di cenci (la frase era del Campora) precipitava da quel greppo, ruzzolava per la china paurosa del monte.

— Animo, ragazzi! — gridò il Picchiasodo. — Ci abbiamo avuto un’ora di svago. È tempo di tornare ai fatti nostri. E così vada bene ogni cosa per noi, come questa c’è andata, coll’aiuto di Dio.

Amen! — risposero i bombardieri, che vedevano il loro comandante di buon umore e s’arrischiavano a far gazzarra con lui.