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CAPITOLO XVII.

Che è il più breve, e che parrà anche, per virtù
del commiato, il più bello di tutti.


La mattina del 6 di febbraio 1449, i genovesi si erano impadroniti, come ho raccontato, del castello Gavone. Il giorno 8 di maggio avevano a discrezione le mura e gli abitanti del Borgo.

Questa vittoria, siccome i tre mesi di estrema resistenza dimostrano, era costata sangue e fatica non lieve all’esercito. Gli assediati con uno sforzo inaudito avevano tentato perfino di ricuperare il castello, e in più d’uno scontro i genovesi si erano veduti a mal passo. Lo stesso capitano generale, entrando alla riscossa ed esponendo la persona, come del resto era suo solito in cosiffatti frangenti, toccò la sua brava ferita. Ma finalmente, veduti mancare i soccorsi che il marchese Galeotto cercava di raggranellare ne’ suoi feudi d’oltre Appennino, e che chiedeva, ora a Torino, ora alla corte di Francia, i finarini si arresero, dopo quasi un anno e mezzo di lotta.

A Genova, tenendosi certa la vittoria, si era disputato nell’uffizio di Balìa se fosse ben fatto assaccomannare e distruggere in tutto la terra del Finaro; ma il consiglio deliberò (come dice quel candido uomo