Pagina:Barrili - La legge Oppia, Genova, Andrea Moretti, 1873.djvu/62

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58 la legge oppia


Valerio

(che era andato verso la fauce a curiosare nel peristilio, torna sollecito)

Son qua.

Catone

Figùrati; entro in casa e trovo il servo di mia moglie che usciva. Si tira da un lato, il manigoldo, e con la sua voce sguaiata mi sfrombola un chere despòtu; mi saluta in greco! A me! Ma dove le imparano, dico io? Perfino Erennio, il mio littore, ha impallidito dallo sdegno. Non è egli vero?

Erennio

La lingua dei padri è sacra, come il diritto dei Penati di Roma.

Plauto

(da sè)

Bravo, il littore! O non pare una delle Dodici Tavole?

Catone

Ma! Eppure egli c’è in Roma della gente che se ne dimentica, gente a cui non è più sacro il Campidoglio, gloria e amore dei nostri antichi, nè i numi laziari, nè i laziari costumi. Grecheggiano! È la loro manìa. Nulla distingue più i giovani romani educati in Roma, dai giovani greci educati in Atene. E il vecchio spirito romano se ne va, cede di contro all’alito di questa genìa, la più perversa e intrattabile del mondo, la quale non ha dato, che cicaloni, spaccamonti, acchiappanuvole.