Pagina:Barrili - Monsù Tomè, Treves, 1885.djvu/21

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quell’uomo metodico che era. Il metodo è la bussola dell’esistenza; e col metodo, Modsù Tomè visse fino a novantadue anni.

Voi, qui, mi direte: come si poteva aver la chiave, per farlo parlare di tante cose, se egli non parlava senza essere stuzzicato in un certo modo e con certe domande? Ecco qua; un racconto ne tirava un altro; gli ascoltatori potevano ritenere qualche particolare del fatto, qualche accenno ad altri fatti ricordati per incidenza, e farne appiglio a sempre nuove interrogazioni. Quando io conobbi Monsù Tomè, le chiavi erano cinque o sei (parlo delle maggiori, di quelle che mi sono rimaste meglio impresse nella memoria): la lanciata del cosacco di Friedland, l’artigliere morto di Wagram, le parole dell’imperatore a Smolensko, il cannocchiale raccattato sulla pianura di Austerlitz, la caduta nel fosso di Eylau, i calzoni rattoppati alla vigilia di Jena. Monsù Tomè le aveva fatte quasi tutte, le campagne napoleoniche. Lui piemontese? Sicuro, lui piemontese! Napoleone aveva desiderato così; il granatiere di Monferrato aveva dovuto prender servizio nel grande esercito. E la ragione di quella preghiera, che equivaleva ad un comando, era chiara: