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42 | dell’uomo di lettere |
in tempesta. All’opposto, quidquid animum evexit, disse Seneca1, etiam corpori prodest. Se dunque la Filosofia altro non facesse che insegnar a stimar la morte quel solo ch’ella è (del che ha sì nobili e sì generosi dettati), quanti e quanto gagliardi parosismi di timori, assalitori tal volta più mortali delle febbri stesse, con ciò ci leva ella dal cuore? Quanti, mezzo sani e tutto sicuri, ad un piccol tocco di male muojono solo per timor di morire, e si uccidon miseramente con nulla? a guisa di quel Diofante2, che si appiccò con la fune d’un filo tolto della tela d’un Ragno.
Enea, appressandosi alle porte dell’Inferno, ebbe un terribile incontro di Centauri, d’Arpie, di Chimere, di Gorgoni, d’Idre; e a tal vista gli corse il sangue al cuore per timore, e la mano alla spada per difesa:
Et ni docta comes tenues sine corpore vitas
Admoneat volitare cava sub imagine formæ,
Irruat, et frustra ferro diverberet umbras3.
Appunto questo fa in un Savio infermo la Sapienza. I timori della morte, che con varie spaventose sembianze quasi dalle porte dell’Inferno gli vengono incontro, avvisa che sono Tenues sine corpore vitæ; e raccorda ciò che scrisse quel Savio di Roma4, che non hominibus tantum, sed et rebus persona demenda est, et reddenda facies sua. Tolle istam pompam, sub qua lates, et staltos territas. Mors es, quam nuper servus meus, quam ancilla contempsit, etc. In tanto gli stolti, che, cercando medicina al male, non hanno rimedio a’ timori ne’ quali gelano più che non ardano nelle febbri, non vogliono nè veder cosa veruna, nè lasciarsi veder da alcuno, che possa loro svegliar nella memoria ricordanza di morte. Pare, che facciano come quello stolto, che, per non esser veduto dalle Pulci che lo mordeano, spense il lume, e, Non me, inquit, cernent amplius hi pulices5: ma troppo buon’occhio hanno i timori, avvezzi a veder meglio nell’ombre che nel chiaro.